Umore dal colore indaco. Duke
Ellington, autore del suddetto brano, è un grande esponente dell’espressionismo
musicale: le sue intenzioni erano quelle di colorare con la musica, creare dei
quadri musicali che riuscissero ad emozionare all’ascolto, creando una
superstrada, senza particolare spese di costruzione, sindacati, politica
stantia, illuminata da un sole esplosivo, tra le orecchie…ed il cuore.
Era il 1927 quando Ellington
tagliava con le forbici il filo e inaugurava l’apertura della strada. Nel 2013,
un altro artista inaugura il primo svincolo della suddetta: una autostrada,
costruita artigianalmente, fatta di terra da ranch, alberi per metà al sole e
metà sotto la pioggia, aperta al passaggio delle sole auto trasparenti, che
collega direttamente il cuore…alla vista, e viceversa.
Michel Gondry, che ha entusiasmato
con la poetica del suo “eterno bagliore di una mente candida” (uso questa
costruzione perché la traduzione italiana mi uccide), e ha divertito con i
tentativi del solito Jack Black di ricostruire decenni di cinema per salvare un
negozio di distribuzione video (tanto per citare un paio di opere), taglia il
filo dorato della seconda uscita a destra, e poi dritto…fino al cuore.
E poi? Pugni. Pugni. Pugni. Tanto
che dal cinema esci livido, con la pelle che prende quel colorito strano,
bluastro, tendente all’indaco.
Certi film ti fanno stare sveglio
(se li vedi di sera, altrimenti ti fanno stare semplicemente fermo a guardare
nel vuoto) dopo averli visti: per le ore successive sei immobile a cercare di
cucirti le ferite e i pensieri, cercando una coesione che non esiste.
Due bambini, un maschio e una
femmina, giocano sul bagnasciuga di un litorale non ben localizzato, nel mondo
per così dire. La risacca non è particolarmente pericolosa e la schiuma del
mare li sfiora appena mentre i due spensierati corpi tentano di costruire
castelli di sabbia. Se ci aggiungete (spero la stiate ancora sentendo) la
tromba andante di Duke nel suo umore indaco avete una nitida immagine di quello
a cui ho pensato nella prima parte di questo film.
Non parlo di trama perché è una
storia da ascoltare nel modo giusto, quindi leggete il libro o andate subito a
vedere il film. Io non saprei cogliere altrettanto bene le emozioni che quelle
immagini danno o quelle parole ispirano, se non immergendovi nel mare delle mie
sensazioni, quelle provate sull’autostrada del cuore.
L’Amore è centrale in questo viaggio
e da inizio a tutto: il protagonista si alza di scatto e grida “Non posso più
sopportarlo questo senso di solitudine: ANCH’IO PRETENDO DI INNAMORARMI!”.
Detto fatto, e con i tempi degni di una favola, in un turbine di eventi
incontra lei, Chloè.
I due bambini costruiscono il
primo piano della sontuosa villa di sabbia e mentre si accingono ad ordinare le
basi per il secondo piano, si toccano dolcemente le mani, e si guardano negli
occhi, esternando entrambi i due sorrisi più belli che siano mai esistiti. Non
lo sanno, ma mentre il sole riflette sulla superficie liscia e perfetta delle
loro dentature, stanno trasformando la realtà in un miracolo. L’acqua continua
a sfiorarli dando quel fresco tepore e formicolio che solo l’innamoramento può
darti.
L’autostrada del cuore non è una
strada britannica, quindi la guida è “normale”: si guida a destra, dalla parte
degli alberi illuminati dal sole, dove non c’è un anima e si può andare a
velocità sostenuta e ritmata, sempre dritto, con i finestrini abbassati e l’aria
che ti accarezza i capelli.
Quando si è bambini si può avere
tutto, si può pretendere il massimo della felicità, perché si è capaci di trasfigurare
il secondo piano di un castello di sabbia nella cosa più bella che si abbia mai
avuta, quella di cui si aveva bisogno proprio in quel momento. I due bambini
mano nella mano buttano su carta i progetti del terzo piano e continuano a sorridere.
L’Amore è trattato così nel film,
come se i due innamorati fossero due bambini, tra i loro giochi, i loro
divertimenti, i giri di parole, i battibecchi benevoli, tra un pranzo e l’altro,
cucinati da un cuoco che fa da padre, e un topo che fa da balia. Tutto è
colorato, arcobaleno, e senza musiche smielate in sottofondo, che il
protagonista odia, perché odia qualsiasi musica non abbia Chloé al centro, perché
sa che la musica migliore è lei, non c’è bisogno d’altro. Ma in tutto questo…quando
arriva la vita?
Improvvisamente nel nostro
viaggio sull’autostrada del cuore c’è un camion della spazzatura. Proprio lì. Sulla
parte destra. Dove c’è il sole. Bisogna rallentare, costretti dal camion che
non da spazio di manovra per superare, a meno che non si decida di andare sull’altra
corsia, quella della pioggia.
Chloé si ammala e anche la
malattia viene vissuta in maniera infantile, cercando di far finta che non ci
sia, cercando di non pensarci o di menti re a se stessa e agli altri sulle
reali condizioni in cui versa. Una ninfea, un fiore, gli cresce nel polmone, e
più cresce più la soffoca e gli fa male. La vita è arrivata, e mostra lo
scontrino.
Il film accoglie tutto questo con
un artigianalità di effetti speciali, riprese in stop-motion, location irreali
nella loro irrealtà, quasi cercando di camuffare la vita, senza volontariamente
riuscirci. Troppo facile usare effetti speciali alla Hollywood, con quelli sì
che saremmo riusciti a far finta di non-vivere. Ma la vita sfugge alle nostre
prese, come un’anguilla che non vuole essere cucinata, e si muove all’impazzata,
anche da morta, tagliuzzata sul piatto della portata. E poi? Tutto per terra,
la porcellana si infrange sul pavimento spaccandosi in mille pezzi, buttati lì,
come se non ci fosse un domani, come se non ci fossero conseguenze, tanto c’è
chi pulisce poi. Proprio come i bambini.
La mano della bambina
improvvisamente cade sul quarto piano e lo butta giù. Il bambino è stupefatto. Magari
non le piaceva? Vuole andare via? Si è stufata? O sta male? Ma lei sorride di
nuovo e lui si riaccende. Insieme ricominciano a mettere sabbia sull’altra, ed
il quarto piano è di nuovo intatto.
L’unica cura per Chloè è quella
di circondarla di fiori, che spaventino la ninfea e la faccia rinsecchire, per
poi asportarla chirurgicamente. E tutto questo sa di vita adulta. Prima voli su
una nuvola di plastica sopra il cantiere della vita, lì sotto tutti lavorano e
te sopra a ridere. Poi. Poi devi fare i conti con le responsabilità, e devi
iniziare a lavorare.
Questo il protagonista fa. Inizia
a lavorare, perché i soldi che aveva sono finiti, e non riesce a permettersi
più i fiori necessari per l’amata compagna. E il lavoro…è quanto di più
difficile per un “nullafacente”. A queste parole il protagonista si alza e
gridando “coglioni!” esce dall’ufficio. Non è fatto per tutto questo.
Il quinto piano si costruisce a
fatica, ma non è questo che preoccupa il bambino. La risacca si è fatta più
intensa, il mare ora non li accarezza più, sbatte sui loro corpi. Si sono messi
di spalle all’acqua per difendere il castello di sabbia. O per cercare di non
vedere la schiuma che avanza?
Dall’altra parte c’è un altro
personaggio la cui vicenda è importante: Chick, l’amico del protagonista. Un drogato.
È innamorato di una donna ma non può sposarla perché non ha soldi, e quelli che
ha li spende in droga: quale droga? Opere, pipe e busti del filosofo Jean Sol
Partre. Questa la sua droga. E questo nome mi ricorda qualcosa. Il gioco delle
lettere scambiate è talmente semplice che pare voluto il collegamento, e
probabilmente bisogna levare il “pare”. È voluto. Jean Paul Sartre, il filosofo
dell’esistenzialismo ateo. Colui che bene o male diceva che l’uomo è libero di
aspirare ad essere Dio della propria vita e che deve però scontrarsi con l’amara
costatazione di essere un Dio fallito. Questa la droga di Chick. Questa la
droga dell’uomo al giorno d’oggi?
Il clacson non serve. Il camion
non se ne va. Bisogna prendere una decisione. Superare a sinistra, passando per
la pioggia. Tanto è un attimo. Il tempo di superare e rientrare.
La risacca è potente e spinge i
bambini verso il castello. Inavvertitamente il piede di lui fa crollare il
sesto piano e il quinto dietro di lui. Si sente in colpa. Non sa che fare e
nell’agitazione del momento, messo alle strette, con un movimento distratto fa
crollare anche il quarto. Lei lo guarda. Non sorride più. E neanche lui.
Non vi dirò come finisce il film.
Non vi dirò nient’altro. Solo quello che ho provato.
La bambina con un movimento
simile, ma per niente distratto, anzi, voluto, tira un pugno fortissimo al
petto di lui. Il bambino cade all’indietro. Vorrebbe iniziare a piangere ma il
pensiero che quel gesto sarebbe infantile lo blocca e lo spaventa allo stesso
tempo. Quand’è che ha imparato cosa vuol dire “infantile”?
Sull’autostrada del cuore la
macchina sterza a sinistra, e sotto la pioggia che per la prima volta cade sull’auto
trasparente accelera e tenta di superare il camion, ma anche questo aumenta la
velocità. La macchina non riesce a superarlo e la velocità è già al massimo,
tanto che non si riesce a tenere bene la guida su questa strada bagnata. All’improvviso
lo vede. Vede il cuore. Il pensiero di essere arrivato lo conforta giusto il
tempo di crollare sul pensiero che sta andando troppo veloce, e che la macchina
sta sbandando. Non riesce più a controllarla. Il camion si ferma d’improvviso. Ma
non si può più tornare al sole. Il colpo al cuore è stratosferico. E l’impatto
lascia un enorme livido bluastro, tendente all’indaco.
Il bambino si risveglia. Non gli
va più di giocare. Non gli va più di costruire castelli, tantomeno sulla
sabbia. Non ha trovato conforto neanche nell’amore quando è arrivata la paura. La
paura. L’angoscia. Proprio quella è tornata ora. Al risveglio. Perché è tutto
bianco e nero? Cos’è questa barba? Dove sono i miei capelli? Dove sono io?
Ha dormito per tanto tempo, le settimane
l’hanno preso e la schiuma dei giorni l’ha buttato in questo mare immenso,
bianco e nero, che è la vita.