martedì 9 aprile 2013

Ep. 16 - Quattro chiacchiere con il mio vecchio




PARTE 1

C’è un aspetto del guardarsi allo specchio che non avevo mai colto. Mai. Quello del “riflettersi” nello specchio. Non semplicemente “guardare” ma “riflettere”. Lo specchio che ti riflette. Tu nello specchio che rifletti. Mai colto questa sfumatura e sicuramente chissà quanti invece l’avranno colta. Ma io…prima di tutto quello che sto per raccontare…non ci avevo mai pensato. Mai.

Il primo incontro fu su un autobus e a dire il vero non fu un vero e proprio incontro perché io non me ne accorsi. Solo dopo mi ricordai di quell’uomo anziano che con i suoi occhi ambrati mi fissava incessantemente e di come di questo sguardo…io…non me ne accorsi sino all’ultima fermata. Stavo scendendo e ho colto il movimento del suo volto che mi seguiva. Mi sono girato mentre con un passo ero già fuori dal bus e lui mi guardava e sorrideva. Non diedi molto peso a quell’incrocio di sguardi. Nella sua fugacità, con tutti e due i piedi fuori dal bus, quell’istante aveva già perso qualsiasi tipo di utilità alla mia vita.

Avete presente quando prendete una tazza d’acqua calda, versate dentro un mezzo cucchiaino d’infuso e prima di girare vi mettete lì a guardare mentre quella macchia scura si deposita sul fondo del bicchiere. Poi girate col cucchiaino e tutto diventa scuro. Bevete…e quando avete praticamente finito di bere la tisana…lì…sul fondo…c’è ancora qualche residuo di ciò che avevate messo col cucchiaino. E pensate “forse non ho girato bene…la prossima volta mescolo di più”. Ma alla fine c’è sempre qualche residuo. Ecco questo è esattamente quello che ho provato quando ho rivisto il vecchio per la seconda volta. O meglio quando l’ho sentito. Il ricordo dell’autobus era rimasto sul fondale del mio bicchiere. E quando ho finito la mia tisana…quando è arrivato il momento giusto. Ho ricevuto una chiamata. E tutto è tornato alla mente. E, perplesso, ho fissato il fondo del bicchiere con la sensazione di non aver mescolato per bene, ma di essere contento di questo.

Erano le cinque del pomeriggio, un orario critico per chi pensa spesso. Se devo studiare, puntualmente non lo faccio, se la tv è accesa puntualmente mi ci metto davanti ma non la guardo veramente. Le diciassette rappresentano l’ora del volo. La mia mente si spegne per un attimo…o forse è giusto dire che si accende. Insomma erano le cinque del pomeriggio e il telefono inizia a squillare. Ed è così che per la prima volta ascolto la voce del vecchio, una voce stranamente familiare.

“Ciao. È imbarazzante…e abbastanza strano. Mi chiamo…ehm…Franco…si…e ecco…avrei una richiesta da farti.”

“…Pronto? Scusi ma chi cerca?”

“Sei Francesco, Francesco Lisi?”

“Si. Mi scusi, cosa vuole?”

“Non si ricorderà di me. Io e lei ci siamo visti su un autobus. Mi pare fosse l’87. Lei è sceso alla fermata di Lepanto se non sbaglio. Ero quel signore con la barba seduto di fronte a lei.”

Tisana. Infuso. Non ho mescolato bene? “Ehm…ha ragione…in effetti è abbastanza strano. Non direi imbarazzante ma…più o meno. Comunque si, ricordo vagamente…ha bisogno di qualcosa?”

“Sono felice di sentire che la sua memoria non mi ha cancellato. Guardi...la situazione è questa…sono un vecchio scrittore e dopo tanto travagliosi ragionamenti sono venuto alla conclusione di voler scrivere un ultimo libro, la storia della mia vita. Il problema è che il mio corpo non me lo permette. Purtroppo sono affetto da una grave malattia, che non mi concede neanche le forze di scrivere al computer. Ma ho la forza di parlare, di ricordare. E ho pensato che avrei potuto dettare i miei ricordi a chi di forze sicuramente ne ha anche troppe. Ed ho scelto lei…”

“Cosa intende?”

“Lasci perdere. Non dia troppo ascolto ai lamenti di un vecchio.”

“Ok. Ma…perché avrebbe scelto me? Mi conosce? Io la conosco?”

“Troppe domande per un apparecchio telefonico…preferirei discutere di questo con lei di persona, se possibile. Le preannuncio comunque…che la pagherò profumatamente. E per un ragazzo della sua età…qualche soldo in più per scrivere al computer…non dovrebbero dispiacere.”

La cosa era abbastanza strana, e necessitava di tante spiegazioni, precauzioni…ma avevo una sensazione di familiarità nell’ascoltare la sua voce…che non mi preoccupai di nulla, nonostante la cosa avrebbe allertato chiunque sano di mente. Mi disse dove abitava, e siccome ero curioso e avevo bisogno di soldi…accettai.

Quando entrai in casa sua ricordo di aver avuto la sensazione di non essere mai uscito di casa. Mi accolse con grande serenità, nonostante la malattia non gli permettesse di comportarsi da bravo padrone di casa, ma la cordialità della sua voce, il calore della sua anziana presenza, e la visione di quella bellissima barba bianca e nera, folta…compensavano qualsiasi mancanza…e andavano oltre.

“Non si chieda perché ho scelto lei…anzi posso darti del tu Francesco?”

“Certo”

“Bene…e ti invito a fare lo stesso con me. Dicevo…non chiederti perché ho scelto te. Sono una persona che ha imparato a basarsi sull’istinto e nel corso della mia vita questo mi ha portato a molte delle mie più grandi avventure. E quando ti ho visto su quell’autobus, proprio quell’istinto mi ha spinto a vedere in te l’inizio della mia ultima grande avventura. Ho fatto le mie ricerche…e ti ho trovato.”

Non ero mai stato così emozionato come lo ero in quel momento. Non sapevo perché…ma mi sentivo al posto giusto, nel momento giusto.

Accordatici sulle modalità di scrittura, sulla divisione del programma e sul compenso (seppur, vi giuro, questo fosse l’ultimo dei miei pensieri allora) Franco iniziò a raccontare.

“Iniziamo da quando avevo 23 anni”

“Cosa? Ma non dovremmo partire dall’infanzia? Cioè…una biografia di solito parte proprio dalla nascita! O sbaglio?”

“Francesco, i miei primi 23 anni di vita non sono importanti come i successivi. Se ci sarà tempo e se reggerò racconterò brevemente anche quelli…per ora…e per le seguenti storie…fai conto che quei 23 anni tu l’abbia già scritti.”

Le emozioni erano a mille. Non ero mai stato un tipo molto avvezzo al lavoro. Ma quell’esperienza mi stava riempendo. E come primo approccio non poteva essere migliore.

La barba si mosse, e il racconto cominciò.

“Quando avevo 23 anni ebbi un illuminazione. Avevo quasi finito l’università e mi stavo per laureare quando presi la decisione di voler viaggiare per il mondo. Volevo conoscere storie, vivere con persone di tutti i tipi e scrivere di tutto questo. Appuntarmi qualsiasi cosa…scrivere tutto ciò che mi accadeva come se stesse accadendo ad un'altra persona e io stessi lì…a fissarla, a guardarla vivere. Volevo scrivere di me in terza persona, i protagonisti di ciò che avrei scritto sarebbero stati tutti la stessa persona: me. E quello che vivevano era quello che avevo vissuto io. Non fu questa l’illuminazione. Questo fu il desiderio che mi aprì gli occhi.”

Avevamo accordato che avrei scritto il romanzo in prima persona, come se fosse stato lui a scriverlo. All’inizio la cosa era abbastanza complicata…poi quando capii che alla fine dovevo semplicemente limitarmi a scrivere esattamente quello che lui dettava, il meccanismo fu più fluido e non trovai più particolari difficoltà. La cosa però ebbe un secondo effetto su di me. Mentre ascoltavo e velocemente traducevo la sua voce in parole sul desktop del computer…nel mio lavoro di mero strumento mi ritrovai imbrigliato in quelle storie…e ad un certo punto mi sentii talmente immerso in esse…che mi sembrò di viverle…proprio nel momento in cui lui le diceva, io le stavo vivendo. Il tutto in un fluido molto semplice e veloce che non dava spazio alla razionalità. Non ero più in grado di capire se ero io che scrivevo le sue storie…o lui che narrava le mie.

È stato un attimo. Ed ero un ventitreenne che aveva la possibilità di viaggiare e di scrivere.

E qui mi ritorna in mente il riflettersi nello specchio.

PARTE 2

Ora potrei raccontarvi tutte le storie che per ore e giorni e settimane questo vecchio mi ha dettato. Potrei raccontarvi le avventure in cui questo vecchio mi ha guidato. Potrei…ma in realtà…tutto perderebbe di senso alla fine. Come lo ha perso per me, quando subito dopo la parola “Fine” il vecchio mi ha guardato...intensamente…e mi ha detto “E’ tutta una cazzata!”

Tutte quelle storie. False. Tutte false. Il vecchio mi aveva ingannato. Così disse. “E’ tutta una cazzata!”. L’errare da una parte all’altra del mondo. Le donne che aveva avuto e che non significavano nulla. Gli amici che si era fatto. Milioni di amici. Milioni di storie. Il suo abitare il mondo. Il suo sentirsi stretto anche su questo pianeta. Il suo amore per la vita. Tutta una cazzata.

Gli chiedo perché. Perché ha voluto scrivere una autobiografia di fantasia. Perché ha voluto inventarsi una vita?

E lo specchio mi riflette.

“Sono te!” mi dice. “Sono te venuto dal futuro.”

Autobiografia di fantasia, con un pizzico di fantascienza.

“Sono te venuto dal futuro…e voglio salvarti la vita.”

Gli chiedo cosa intende. E la semplicità con cui accetto tutto questo mi sorprende. Forse è perché è quello che stavo aspettando. Il movente di cui avevo bisogno. “Fai conto che i primi 23 anni tu li abbia già scritti”. Si. Li ho scritti. E non ho voglia di riscriverli. Non mi piacciono. E ora cosa mi aspetta?

“Sono venuto a salvarti la vita. Tutto quello che ti ho raccontato, i viaggi, le emozioni…sono i rimpianti della mia vita. La realtà è che non ho mai avuto il coraggio di fare nulla. Sono uno scrittore. Si. Questo è vero. Ho scritto romanzi. Si. Questo è vero. Ma dalla carta alla vita non è saltata fuori nessuna emozione. Scrivevo perché era l’unico spazio dove avevo il coraggio di fare le scelte che altrimenti nella vita…non ho mai fatto. Sono venuto a salvarti la vita. A dirti di smetterla di scrivere di fantasia…e comincia a fare il cronista della tua vita. Scrivi quello che vivi…non vivere quello che scrivi.

“Ho sempre cercato di dimostrare qualcosa nella mia vita. Di dimostrare che ero qualcuno. Di rispettare dei canoni di rispettosità. La verità è che così facendo non sono mai stato all’altezza di niente. Alla portata di tutti. All’altezza di niente.

“Ho sempre cercato di dimostrare che ero un tipo affidabile, ma soprattutto una persona a cui ci si poteva aggrappare, a cui chiedere aiuto. Un macigno immovibile. Una sicurezza. La verità è che facevo i salti mortali per esserlo e sembrarlo. Che quando loro piangevano sulla mia spalla…non si accorgevano del sudore della mia fronte.

“Ho sempre cercato di dire e convincere gli altri che ero un buon amico, onesto, non ipocrita, non saltuario. La verità è che sono un pezzo di merda che ti chiama solo quando si sente solo. Che quando inizia a perdere una o due cose ha freddo e inizia a cercare le diecimila lasciate nel tempo. Che guarda avanti e schiaccia la gente ma quando viene schiacciato cerca aiuto sotto le suole delle scarpe.

“E un giorno ho capito che sotto le mie suole…c’ero io. Mi ero schiacciato da solo. E quindi sono tornato indietro. Qui. Da te. Ad aiutarti…ad aiutarmi. Per me è tardi. Ma per te non lo è. Muoviti. Agisci. Smettila di creare. Comincia a costruire. Non aver paura di fallire, anzi…fallisci. Senti il dolore dello sbattere col culo per terra e vedrai che seduto non ci vorrai più stare. Io ho passato una vita a rimpiangere il tempo che passava senza che io facessi nulla. Sempre schiavo delle mie convinzioni. Sempre schiavo di archetipi precostruiti. La vita non si decide a tavolino. È per questo che quando nasciamo siamo stupidi bambini incapaci e piano piano arriviamo alla morte…incapaci nel corpo…ma saggi e maturi nella mente. Io invece morirò come uno stupido bambino incapace. Ma tu puoi ancora salvarti.

“Quel libro, quella bibbia per idioti, quelle pagine piene di fantasie e rimpianti…brucialo. Quella non è la tua vita. E purtroppo non è stata la mia. Brucialo. E scrivine un altro. Scrivilo col sangue, col sudore, con le gambe e le braccia. Con le tue labbra. Con il tuo corpo. Scrivilo con i tuoi respiri, con i tuoi polmoni. Con i tuoi occhi. Con la tua mente. Con le cicatrici, con i fallimenti, con le rotture, con i momenti sbagliati. Metti in risalto la tua vita con l’evidenziatore, non nasconderla col bianchetto come ho fatto io.”

Finisce qui. Mi guarda. E finisce di parlare. Ed io ho paura. Ed io sono felice. Ed io devo ancora capire cosa è successo. Devo ancora digerire tutto. Io sto ancora all’inizio. È come un rallentatore. Piano piano ci arrivo, lo giuro. Ma con calma.

Non posso rimanere qui ora. Prendo le pagine stampate della mia…sua autobiografia di fantasia…prendo un accendino. Esile esce dalle mie labbra un ‘grazie’ stentato. E lui mi guarda. Apro la porta e lì mi fermo. So cosa sto per domandare. Lo so e lo sa anche lui. Perché è l’unica cosa che veramente m’importa. E’ l’unica moneta di scambio. È la sola cosa che realmente può convincermi.

“Nella tua vita” dico “hai una moglie? Dei figli? Una famiglia? Capisco il vivere con la paura di sbagliare e la castrazione che comporta. Ma sei riuscito a trovare una donna, una famiglia insomma…almeno quella…l’hai costruita?”

E’ l’unica cosa che veramente m’importa. L’unica moneta di scambio.

Il vecchio mi guarda. E per la prima volta in tutto questo tempo…inizia a piangere. Io ho già capito la risposta. L’ho vista in prospettiva. D’altronde quello sono io.

E chiudo la porta della stanza con un rumore che copre il suo “no”…stentato.

venerdì 5 aprile 2013

Ep. 15 - Ho una cosa da confessarle...

 
 
Credo. Credo in Dio.
Lo so il contesto non è dei migliori per ammetterlo: ma di questi tempi quale lo è?
No. Non sono un qualunquista. Anche perché per essere un qualunquista tocca parlare male del male e bene del bene. Ma oggi è tutto così confuso. Bene è male, male è bene. Non ci capisco più niente. Sono un qualunquista? Non me ne frega niente.
Lei mi chiede perché ho fatto quello che ho fatto. Si, so che mi è difficile arrivare al punto...ma lei è noto per la sua pazienza e sicuramente non la perderà con me. Ha già rischiato di perdere molto altro per colpa mia.

Credo. Credo in Dio. Ma ora come ora questo non mi è di aiuto. E diciamo che alla fine la cosa sta tutto qua.
Lei lo sa che per quelli come me c'è il rischio di pensare ad un piccolo aspetto della fede che, nel nostro caso, non è molto positivo?
L'immortalità dell'anima, la chiamano.
La vita eterna, dicono.
Non moriamo, gridano.
È un passaggio dalla vita alla vita, mi catechizzano.
Ahia, dico io.
Perché? E ora glielo spiego. D'altronde se ho fatto quello che ho fatto...il motivo sta tutto qui.
Lei lo sa che lo spazio sa di bistecca? Lo ha detto la Nasa. Dicono che un astronauta è tornato da una spedizione e la sua tuta puzzava di bistecca, bruciata per giunta.
Cosa centra? E ora glielo spiego. Lei ha molta pazienza, è famoso per questo.
Sorella pazienza, la chiamano.
Calma eterna, dicono.
Nostra sora morte, gridano.
Ahia, dico io. E sta tutto qui.

Credo. Credo in Dio. Ma questo non mi fa diventare divino. O meglio lo farebbe, se io cambiassi attitudine. Ma quando uno vive come me, sempre alla ricerca dell'attitudine giusta in ogni contesto. Con la perenne sensazione di sentirsi inadeguato. Dover trovare l'attitudine giusta per poter essere divino, è come tornare dallo spazio e puzzare di bistecca, bruciata per giunta. Non so se sono stato chiaro.
Lei mi chiede cosa centra questo con quello che ho fatto.
Cosa centra tutto questo con il fatto...che io ho sparato a lei...
Ora glielo spiego subito, che lei è una persona paziente, che se non lo fosse lei che ha tante responsabilità...
Responsabilità adulte, le chiamano.
Pesi da sopportare giustamente, dicono.
Aiuto, gridano. O sono io che grido?
Io vivo in perenne inadeguatezza, e lei mi chiede cosa centra con il perché l'ho sparata...in perenne inadeguatezza si vive con la paura, lei lo sa, che lei capisce...con l'ansia...l'ansia del...del fallimento...della morte.
Lei capisce. Lei lo sa.
L'ansia del fallimento. L'ansia della morte si può sconfiggere in due modi.
Scegliendo di vivere da buon cristiano.
Abbandonandosi al completo nichilismo.
E per uno che ha paura di sentirsi inadeguato, che ha paura di sbagliare...beh la scelta è sbilanciata.

Credo. Credo in Dio. Ma comportarsi da buon cristiano è un'altra responsabilità da dover portare sulle spalle, col rischio che poi sbagli e ti tocca pure confessare le tue colpe.
Ecco. Sta tutto qua.

Credo. Credo in Dio. Ma se sbaglio devo confessare le mie colpe.
Senso di colpa, lo chiamano.
Senso di colpa nei confronti di Dio, dicono.
Aiuto, grido.
Come starà cominciando a capire può anche eliminare tutte le ipotesi di attentato fondamentalista, di gruppi islamici o che altro che la vogliono morto. Non ho agito per conto di nessuno. Non sarei stato capace a farlo altrimenti.
Ho agito di testa mia...e ho sparato il colpo. Forse non l'ho uccisa volutamente. Forse.
Nonostante stia qui a confessare le mie colpe ho sempre avuto un problema con la confessione.
Senso di colpa, lo chiamano.
Mi sono sempre vergognato di ciò che avrei dovuto confessare, così per vergogna non mi sbiancavo...e mi sporcavo sempre di più. E mi vergognavo sempre di più. E vede...lei mi chiede perché ho sparato...e la cosa sta tutto lì.

Credo. Credo in Dio.
E forse ho sparato proprio perché credo in Dio.
Forse ho sparato proprio perché cercavo questo momento.
Le ho detto che ho ansia del fallimento. Ho ansia della morte. Ma se Cristo ha distrutto la morte risorgendo...di cosa ho veramente paura io?
La mancanza di una risposta mi ha portato al nichilismo. Basta valori. Zero.
E mi sono sporcato, dicono.
E mi sono vergognato, gridano.
E ho sparato.
Ho detto se non posso neanche morire, se ho una vita eterna da scontare...cosa posso decidere? Quand'é che la mia scelta riuscirà ad avere un peso...nella mia vita eterna?
Mi sono detto: una scelta la posso fare...posso scegliere di andare all'inferno! Quello posso deciderlo io. Non devo venire giudicato. Ho già scelto.
E nello scegliere l'inferno ho sparato.
Ho sparato a lei.
Mi sono detto: sparo e mi guadagno l'inferno. Una scelta svincolata. Una adeguata presenza. Una decisa conseguenza. L'inferno. E ho sparato.
Ma lei non è morto.
Lei è sopravvissuto, dicono.
E io sono qui a parlare con lei.
A confessarle i miei peccati.
Non sono riuscito a guadagnarmi l'inferno, perché lei ha deciso di vivere.
Non sono ancora in mezzo alle fiamme, perché lei non è morto.
Io le ho sparato, e lei non è morto. E mi perdoni la superbia, ma ho come l'impressione che abbia deciso di vivere per salvare me.
Se è così ho bisogno che me lo dica.
Ho bisogno di sapere se la sua sopravvivenza sia la mia salvezza.
Ho toccato il fondo...lo so...ho quasi ucciso un uomo, lei, per guadagnarmi l'inferno. E lei, sopravvivendo, con la sua vita mi ha illuminato, mi ha salvato.
Questo mi ha convertito. Mi creda.

Credo. Credo in Dio.

Ora ho solo bisogno di sapere se lei è rimasto in vita per me. Per salvarmi.

Sua santità...la prego, me lo dica.

lunedì 1 aprile 2013

Ep. 14 - Questo perché non so scrivere sceneggiat​ure!

 
Se questo fosse un film...innanzitutto sarebbe un film. E quindi voi stareste guardando. E quindi tutti lì ad aspettarsi una serie di cliché, di inquadrature, di movimenti di macchine e vaffanculo.
Se questo fosse un film, e dico un film di molti molti anni fa...il vaffanculo me lo censurerebbero ma di questi tempi nei film ci mettono di tutto e quindi che vadano tutti a farsi fottere.
Comunque...tornando a noi...

Se questo fosse un film partirebbe col nero...il mio nome...il mio...ciao io sono il regista...insomma, il mio nome uscirebbe al centro...preciso...bianco su nero...con uno stile di scrittura che pare uscito da una macchina da...scrivere, appunto. Il mio nome. Al centro preciso. E sotto in piccolo "presenta".
E si perché...se questo fosse un film...sarebbe un mio film. Una mia creatura. Il mio bambino. Un bambino. Ecco. Esatto.

Se questo fosse un film il titolo non lo vedreste...ma dopo il mio nome e la parola "presenta" il buio scomparirebbe per dare spazio ad una inquadratura dall'alto di una camera. La moquette con i ricami di una strada (o almeno credo sia una strada) che gira fino a creare un vortice...e al centro...un bambino. Seduto. Che gioca.

Se questo fosse un film sarebbe un film sperimentale. Uno di quelli che se sei un cinefilo o un recensionista ci trovi di tutto e di più all'interno fino a dire che io, il regista, quello di "presenta"...sono depresso e faccio film per saltare la seduta dal prete confessore. Dal padre spirituale. Dallo strizzapeccati. Ehi...non ho niente contro di lui, mi salva la vita. Don Salvalavita Beghelli.

Torniamo al bambino...torniamo da lui che sta giocando con le macchinine, ah, non ve l'avevo detto? Beh ma se questo fosse un film lo vedreste, non dovrei dirvelo giusto? Comunque... Gioca con le macchinine e l'inquadratura stringerebbe su di lui. Piano. Piano. Con quella lentezza che da professionalità al tutto, che poi la gente s'accorge che sono nato sul web e ci vuole poco che i professori mi cacciano da Hollywood a calci in culo. E a me chi me la salva la vita poi? Don Beghelli?

Se questo fosse un film la scena cambierebbe di scatto sulla porta che si apre...ed entra una donna. Ed entra la mamma. Ed entra lei. No...non tutte e tre. Non sono tre. È solo una. Mistero della fede. Taglio. Cut. Ed entra la mamma aprendo la porta della stanza.

Se questo fosse un film i toni di colore sarebbero freddi. Per dare quel tono di triste riflessione, che poi ci vuole poco che si ricordano che facevo il pagliaccio sul web e mi mandano a fanculo. E ringraziamo che la censura non ci rompe i coglioni oggi. Anche se Don Beghelli ora come ora qualche chiamata al telefono me la fa...non ora padre. Non vede che sto parlando? Cioè scrivendo? Cioè girando? Cioè...vivendo?!

Se questo fosse un film la madre ai avvicinerebbe al bambino in maniera preoccupata e per la ripresa adotterei un rallenty ben posizionato, puro, semplice...come Scorsese nell'ultima tentazione di Cristo per capirci.
Don Beghelli non ora!
Un rallenty preoccupato. Si. È l'accostamento giusto. Lentamente si avvicinerebbe al bambino. E appena lo prende in braccio...taglio. Cut. Sul nero.

Se questo fosse un film stareste in sala e a questo punto sul nero che non v'illumina potreste avere tre pensieri:
Primo. Che cosa cazzo è successo? E ringraziereste che la censura nella vita non esiste (per poi fermarvi a riflettere che in effetti già vi limitate abbastanza per poter sopportare anche una censura). Secondo. Quanto cazzo ho pagato per vedere questa schifezza? E non so perché a questo punto mi viene in mente il mio "presenta". Terzo. Col nero nessuno ci vede se iniziamo a pomiciare.

Per quanto avrei maggior piacere a seguire le vicissitudini di questo terzo filone, non ci porterebbe a nulla e poi diciamocelo...il voyeur è così anni '70! Quindi proviamo a seguire il primo punto (per il secondo tranquilli ragazzi...i soldi non sono ancora arrivati a me, quindi siete ancora in tempo per riprenderveli).

Che cosa cazzo è successo? Beh...se questo fosse un film a questo punto lo scoprireste...perché dal nero che non illumina comparirebbe un uomo. Con la barba. Seduto davanti alla tomba di suo padre. Davanti. Non accanto. E che è di suo padre lo capite perché sulla lapide ci sarebbe scritto semplicemente "papà". (E non so perché a questo punto mi viene in mente il mio "presenta"). Beh ci sarebbe questo tipo davanti alla tomba di suo padre e partirebbe a parlare. Attacca un monologo semiserio sulla scia dell'umorismo alla woody allen guardando in camera...parlando di sua madre.
Questo tipo davanti alla tomba di suo padre inizia a dire che avrebbe dovuto trattare meglio sua madre. Che avrebbe dovuto starle accanto nei momento di stanchezza. Dopotutto era sua madre. Che avrebbe dovuto ascoltarla di più e criticarla di meno. Dopotutto.
Questo tipo davanti alla tomba di suo padre dice che sua madre era una grande donna. Che la sua affettività riempiva. Come l'uovo a pasqua. O come il pandoro a natale.
Questo tipo davanti alla tomba di suo padre attacca a sparare tutta una serie di fatti in cui avrebbe dovuto fare di più per sua madre. Di quella volta che non l'ha aiutata con la spesa. Di quella volta che non l'ha aiutata con la casa. Di quella volta che non l'ha aiutata con il pranzo, la cena, la colazione, i biscotti di natale, la pastiera siciliana, il frullato, i gelati. Di quella volta che non l'ha accompagnata. Di quella volta che non le ha creduto. Di quella volta che l'ha criticata. Di quella volta che non le ha chiesto perdono.
Questo tipo davanti alla tomba di suo padre, quella lapide con scritto "papà", a questo punto sta zitto e guarda in camera.
E se questo fosse un film dall'alto cadrebbe con un suono ironico un cellulare sull'erba, e inizierebbe a squillare.
Il tizio prenderebbe il cellulare e di fronte alla lapide con scritto "papà" risponderebbe.
"Mà? Mamma sei tu? Cosa? Le uova? Ma adesso? Ma saranno chius...va bene. Ok. Va bene. Ti prendo le uova. Ok! Ciao!"
E se questo fosse un film attaccherebbe, direbbe "Che palle" e...cut. Taglio. Bum. Nero.
Il nero che non illumina.
Il nero che nasconde.
Il nero che spaventa.

Se questo fosse un film stareste in sala e a questo punto potreste avere tre pensieri:
Primo. Cosa cazzo significa? E perdonatemi se la domanda mi fa sogghignare. Secondo. Non pensereste nulla. Avreste già ripreso i vostri soldi e ve ne sareste andati da un bel pezzo. Terzo. Misà che è cotta abbastanza per il prossimo passo...quando finisce il film?

Per quanto sarebbe interessante e tragicomico vedere come va a finire tra i due del terzo pensiero (non potete immaginare cosa succederà loro! Vi dico che centrano una pasticca di Buscopan, il rossetto di lei e l'ecografia del tumore appena diagnosticato alla condomina del piano di sotto) non siamo qui per questo e nel secondo pensiero la strada cade nel nulla, e non c'è spazio qui per un'altra dose di nichilismo. Quindi continuiamo a seguire la prima strada.

Cosa cazzo significa? Scusate se sogghigno. Mi viene naturale. E questo perché se questo fosse un film...ora dal nero che non illumina voi vedreste me, il regista, guardare in tv il mio stesso film.
Vedreste il finale, che avete appena guardato, nella tv, e vedreste la scena chiudersi sul nero, proprio come avete visto voi prima. Sul nero. Ma un nero che mostra.
Nello schermo nero, infatti, a questo punto, vedreste il mio volto riflesso fissare immobile la tv. E quando dico immobile intendo dire che dopo un po' non riuscireste a trovare differenza tra me e la poltrona dove sono seduto.

Se questo fosse un film ora vedreste il mio braccio muoversi e immagino che i pochi di voi rimasti avrebbero un sussulto quando nell'inquadratura vedrebbero entrare una pistola.
Dico "pistola", così, generico...perché quello che vedreste sarebbe talmente veloce che non avreste il tempo di chiedervi se è una Glock semiautomatica o altro, e comunque non riuscireste a capirlo. La pistola me la ficco in bocca e nello schermo della tv vedreste la mia testa all'indietro e il sangue sulle tende.

Se questo fosse un film ora vedreste la tv riaccendersi e vedreste di nuovo me, sorridente, in una foto di troppi anni fa...e sotto la foto comparirebbe un scritta, bianco su nero, come se fosse uscito da una macchina da scrivere:

In loving memory of...

Se questo fosse un film immagino che tutto questo vi stupirebbe.
Ma questo non è un film.
In loving memory of ME ma questo non è un film...e l'unica cosa che potreste vedere, ora....sono gli schizzi di sangue sul block notes.

Ep. 13 – Per la maledetta voglia di rimanere vivo (il mio manifesto letterario)




Cinque minuti fa stavo in macchina. Stavo ascoltando una canzone quando mi è venuto in mente qualcosa da scrivere. Ora…sono qui a scrivere. Mi sono precipitato. Ho corso le scale, aperto la porta velocemente, e mi sono buttato sulla poltrona, portatile sulle gambe ed eccomi qui…a scrivere.

Teoricamente dovrei chiamare il barbiere e prendere un appuntamento il prima possibile per oggi pomeriggio. Per tagliarmi i capelli ovviamente. E a giudicare da come mi guardavo allo specchio stamattina…ne ho bisogno. Ma devo assolutamente scrivere quindi rimando la chiamata a dopo. Anche perché…se tutto è ordinato, pronto, e senza particolari impegni imminenti...il tempo si dilata…e io…non riesco a scrivere. Quel tempo me lo prenderei tutto. Starei lì a guardare nel vuoto e a pensare a cosa scrivere…ma alla fine non scriverei nulla. Perché nella mia testa non è così che funziona. Ma a questo ci arriveremo dopo.

So già che sto per mostrarvi il mio tallone d’Achille, e so che prima o poi me ne pentirò e mi farà schifo quello che ho scritto…ma ora sono qui. E scrivo ciò che mi sento di scrivere.

Molto del mio rigurgito in stampatello prende ispirazione dalla musica. E non da tutte le canzoni. Ma da alcuni autori in particolare. E per quelli di voi che pensano che ora citerò De Andrè, Mogol o il compianto Lucio Dalla…beh vi sbagliate. Non che quelli non siano d’ispirazione. Lo sono eccome, soprattutto Lucio (Dalla…non quello di Mogol). Ma ultimamente ciò che mi ispira di più (e per ispirazione intendo dire quella sensazione di vivere in un mondo parallelo dove whatsapp vuol dire guardarsi negli occhi, e facebook significa guardare insieme l’album di famiglia e sorridere nel vederla quando era solo una bambina con i ricci biondi) sono i testi di due grandi autori della scena rap dell’ultimo periodo.

Scena rap? Si avete sentito bene. Ma benché non condivida questa stonatura che sentite nella parola “rap”…penso che con riguardo ai suddetti autori la stonatura sia molto più lieve di quella che immaginate. Eh si perché questi due non sono due normali cantanti rap. Bensì sono, come mi piace catalogarli, dei musicosofi.

Cosa significa musicosofia? Sarebbe un termine che unisce musica e filosofia. Ma in realtà è solo una cazzata che ho scritto per catturare la vostra attenzione (e la mia). Quindi vado direttamente a dirvi i nomi dei cantanti: Jacopo D’Amico e Daniele Lazzarin. In arte: Dargen D’Amico e Danti.

Ecco che il tallone d’Achille è stato scoperto e già sento il vibrare delle frecce che fendono l’aria. Tra cinque minuti saranno qui. Ma come vi dicevo prima...più sono limitato, più sono ispirato.

La canzone che ascoltavo in macchina è proprio una canzone dei due musicosofi soprascritti, “Nessuno Ascolta”. In realtà…è una canzone del duo “Two Fingerz” composto dal cantante/autore Danti e il produttore musicale Roofio. Nella suddetta canzone però c’è una featuring con Dargen d’Amico.

Ora però spengo la modalità wikipedia e torno a noi. Proprio il testo di questa canzone mi ha tratto dalla macchina e mi ha spedito davanti al computer.

Mentre l’ascoltavo pensavo al mio modo di scrivere, il mio modo di raccontare storie, il mio modo di produrre mondi paralleli in cui non vivo. E mi sono ritrovato completamente in quella canzone. Non perché parli del mio modo di scrivere. O per lo meno non in tutta la canzone…altrimenti…come potrebbe confarsi a me il pezzo che dice “Scrivo leggero ma perlomeno non dico parolacce a fin di bene”? Provate a leggere l’episodio 6 di questo blog e poi tornate qui. Fatevi una risata.

Ma ehi…ci sono pezzi in cui parla di me. Del mio apporto a questo spazio d’etere. E parliamo del pezzo di Dargen che tra i due è il mio musicosofo preferito.

Ragazzi l’avrete capito:

Io scrivo perché mi piace vivere le vite che scrivo, e non mi piace vivere quella in cui scrivo.

E me ne frego se scrivo male. Lo so. Le pause. La punteggiatura.

 Non è questo il modo…

so anche che se volessi potrei architettare costruzioni sintattiche all’altezza degli autori veristi dell’ottocento italiano, quali Verga e altri drammaturghi, commediografi o tragediografi che siano, cogliendo magari le più fervide sfaccettature della realtà circostante e consegnando le mie fotografie cerebrali alla mano e alla penna, al sonoro calore dell’echeggiare del camino.

Ma per me…non è questo il modo. Come dice Dargen:

“io scrivo per la voglia di rime dette male”

Ma la domanda è questa: sono dette male? Il problema al giorno d’oggi è che nessuno ascolta più le parole. E non sto citando la canzone…è così! Ed io sono il primo che non ascolta. Le persone vogliono parlare…ma non ascoltare. Ed in realtà alla fine non parlano neanche…chattano!

Se dovessi citare la canzone invece…

“…perchè sprecare parole per
arrivare alle persone se
quello che rimane è solo: Na nana nana…"

Esatto. Alla gente rimane solo na nana nana. E allora come fare a scrivere qualcosa che venga letto? se alla gente rimane solo il ritornello, solo la musichetta…come fare a scrivere qualcosa che rimanga?

Ecco l’ispirazione che ho avuto ascoltando questa canzone. Il mio modo di scrivere…le varie righe buttate su questo blog…non sono scritte male, non è più questione di punteggiatura, di pause e di verbi…è questione di na nana nana.

Bisogna riuscire a tradurre in scrittura il na nana nana, mantenendone il ritmo, la musicalità, togliendo la musica. E soprattutto…riempendo il na nana nana…di contenuti.

Questa è la mia dichiarazione…potrei scrivere pagine e pagine…ma alla fine neanche mi spreco…ma non è questo un male. Perché so che a voi serve il na nana nana ed io ve lo do. E ve lo riempio di contenuti. C’è solo da capire…perché diavolo tutto questo sforzo. Perché diavolo devo mettermi lì a tradurre in musica sorda i miei pensieri. Perché? Ve l’ho detto già da tempo…ma se non ve lo ricordate ve lo ripeto citando Dargen:

“per la maledetta voglia di rimanere vivo”

Perché è così che vivo. "Le ho provate tutte" le strade ma alla fine della giornata, quando non sai cosa mangiare e se mangiare, non sai che ora è, non sai cosa fare o se fare alcunché, dove trovare un attimo di pace, o un attimo di guerra giusto per sentire qualcosa…all’improvviso ti ritrovi con le dita sui tasti della tastiera e devi stare attento che non ti ci cadano le briciole di ciò che stai mangiando.

Perché qualcosa…alla fine…mangi sempre.

Scusate ma ora devo veramente chiamare il barbiere.