martedì 18 marzo 2014

Non-Recensioni: LEI (Her) di Spike Jonze

CHIODO SCACCIA CHIODO AI TEMPI DI SIRI?

"Due bionde piccole" ed il bello è che ce le porta subito.

Lui mi guarda ed alza il bicchiere per chiedere il cin-cin. Me ne accorgo con leggero ritardo, il tempo che serve a rendere il suo braccio alzato, bicchiere alla mano, piuttosto imbarazzante. Mi affretto a rispondere al cin-cin e guardo il bicchiere per centrare il suo.

"Ci si guarda negli occhi!" mi dice lui, ammonendomi.
"Ed io guardo la birra" chiudo io.

Le bevute post-cinema hanno un altro sapore. Quel sapore di discussione, di analisi, di amore per il cinema. Una birra in pellicola. E bisogna stare attenti che prende subito fuoco.

Il film di stasera è Her di Spike Jonze. Quello di Being John Malkovich si. Esatto. Ed è stato un film...mmm...come riassumere le emozioni provate in un breve commento introduttivo? Beh, diciamo che è uno di quei film che necessitano di una birra in pellicola dopo averli visti.
Ma beviamola lentamente.

Innanzitutto un pensiero viene subito alla mente all'exit del cinema: le proprie esperienze di vita, i propri sentimenti, il proprio passato influiscono decisamente su ciò che un film è; per ognuno di noi. L'unica cosa in comune è che il cinema...è pura empatia!

E questo mi è subito venuto in mente guardando Her, perché Her...parla di rotture. La fine di una relazione e la necessaria rottura con il proprio passato.
"Il passato è solo una storia che ci raccontiamo a noi stessi" grida il film. E questo è il senso di Lei.
E siccome il cinema è empatia questa birra in pellicola era perfetta per me in questo momento.

Vogliamo cadere nel banale? Cadiamoci: quando finisce una relazione importante c'è un percorso intimo che noi facciamo che ci porta alla fine a superare quel malinconico momento pieno di tristezza e rancori. Un percorso più o meno lungo, più o meno doloroso ma di cui l'inizio e la fine sono chiari: inizia con la fine di una relazione, finisce con l'inizio di un'altra vita.

Il mio amico ha quasi raggiunto metà della sua birra e tira fuori una sua teoria sulla vita: dice che la vita di ognuno di noi non è nulla in confronto all'eternità e che corrisponde ad un semplice punto schiacciato da una linea retta infinita;
Io non capisco bene questo cosa centri con la nostra conversazione cinematografica ma gli rispondo dopo un sorso della mia bionda piccola che quello è solo un modo di vedere la vita; dall'esterno. Se noi invece andiamo a vedere dal nostro piccolo punto di vita, con umiltà...possiamo espandere i giorni e vederne ogni attimo dandogli un valore.

E poi mi viene in mente che è proprio questo che Spike Jonze fa con Her: prende il momento esistenziale di un uomo reduce dal fallimento di un amore e lo espande, fotografandolo con un iPhone di ultima generazione e pubblicandolo su un social qualunque filtrandolo con Instagram.

"Tu non sai cosa vuol dire perdere qualcuno a cui tieni […] io aspetto che non m’importi più di lei"

Il mio amico esplode. "Cristo santo ma non è possibile raccontare la storia d'amore tra un uomo e un sistema operativo, dai. O per lo meno se è così alla fine falli mettere insieme per davvero, che ne so: un robot? Che prende le sembianze di donna e la voce di Samantha! Che cazzo ne so. Ma comunque è assurdo".

Rido. Rido perché anche lui come molti autori di recensioni che ho letto non hanno capito.
"Tu credi - gli chiedo - che 'Lei' a cui si riferisce il titolo del film sia il sistema operativo? Credi che la storia d'amore di cui parla il film sia quella con la voce di Scarlett Johannson?"
No, gli dico. Non è così. La storia d'amore di cui si parla è quella storia fallita con Catherine, la sua ex moglie.
La voce, il sistema operativo, Samantha, l'entità sonora sempre in fase preorgasmica di Scarlett Ramazzotti...quella non è Lei.
Il Sistema Operativo OS1 serve a Theodore per un solo motivo: riuscire a rompere con il pesante legame che ha con il proprio fallito passato.

La metafora del film è chiara, seguiamone la trama: Theodore e Cathrine sono sposati. Tra di loro inizia ad andare male. Cathrine lascia Theodore e chiede il divorzio. Theodore passa un anno a rimuginare e a distruggersi per capire cosa ha fatto di sbagliato, senza pensare che si è sposati in due, si sbaglia in due e si divorzia in due. Entra in campo Samantha, il sistema operativo, che con il suo entusiasmo per il mondo, inizia ad aprirgli gli occhi: si può andare avanti! Theodore accetta di firmare il divorzio perché crede di essere pronto per una nuova storia (si con il suo computer) ma…ecco che rientra in gioco Cathrine, o meglio il giudizio della ex moglie che ha sempre influenzato e continua ad influenzare la vita di Theodore.

Ed il film, credo io, ha un preciso significato che si rivela nelle pieghe del dialogo che avviene tra Theodore e Cathrine quando s’incontrano per firmare le carte del divorzio.

“M’intristisce molto sapere che tu non riesci a gestire emozioni reali, Theodore” dice  Cathrine quando sa della storia con il laptop e quando una cameriera chiede se andasse tutto bene, Cathrine parte con la sentenza massima:
“Tutto bene. Eravamo sposati, ma lui non mi sapeva gestire, mi voleva dare il Prozac e ora sta con il suo portatile!”

Il mio amico ha praticamente finito la birra e mi guarda con un’espressione diversa.
“Ho capito perché ti è piaciuto tanto questo film! Mi ricorda tanto…” e lo fermo subito. Ha ragione. Ma non è di questo che voglio parlare. Gli dico che alla fine tutte le relazioni sono difficili, che come dice Amy Adams nel film “L’Amore è una pazzia. E’ come se fosse una forma di follia socialmente accettabile!” e quando lo dico un uomo dal bancone si avvicina; è vecchio, quasi sull’ottantina, ha degli occhiali spessi e neri e dice con una voce simile a quella di Oreste Lionello: “questo mi fa pensare a quella vecchia barzelletta, sapete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: ‘Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina’, e il dottore gli dice: ‘perché non lo interna?’, e quello risponde: ‘e poi a me le uova chi me le fa?’. Be', credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, ehm... e pazzi. E assurdi, e... Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova!”  e se ne va!

Il mio amico, come se non fosse successo niente, mi fa: “Ho capito ma…se come dici tu Samantha gli serve solo come strumento per superare il fallimento del suo matrimonio…perché quella scena con Amy Adams, quando lui ha dei dubbi sulla sua relazione con Samantha dopo la discussione con la ex moglie?”
E mentre lo dice mi ricordo la scena di cui parla, l’altra scena fondamentale che fotografa perfettamente il nostro Theodore attraverso questo dialogo con l’amica Amy Adams.

“Non so quello che voglio, non lo so mai. Sono sempre confuso e…lei ha ragione, non faccio che ferire e confondere chi mi sta intorno. E’ possibile che sia davvero…Cathrine dice che non so gestire emozioni reali.”
“Non Credo sia giusto dire questo…so che lei ha sempre dato la colpa a te ma…in quanto a emozioni, quelle di Cathrine erano piuttosto mutevoli.”
“Si ma…io ho questa storia perché non sono abbastanza forte per una relazione reale?”
“Pensi che non sia una relazione reale?

Ed il mio amico finisce la birra ed esplode di nuovo: “Esatto! NO! Non è una relazione reale, perché dopo questo film lui inizia a percepirla come tale? Non lo è! E’ un sistema operativo! Un computer e SI! NON SEI ABBASTANZA FORTE PER UNA RELAZIONE REALE!” ed io rido di nuovo. Ha ragione ma non ha capito il film, probabilmente.

Theodore ha bisogno di credere che quella sia una relazione reale per superare il legame che ha con il giudizio della ex moglie. “Cathrine dice…” è ciò che gli occupa la maggior parte dei suoi pensieri, e non riuscirà mai ad avere una relazione reale fintanto che sarà così. Ecco perché è necessario che creda di avere una relazione reale con il nuovo modello di Siri!

Ed infatti nella seconda parte del film e sul finale vediamo questo: Theodore sostiene questa relazione che in realtà si rivela in tutta la sua irrealtà. Samantha inizia ad essere ciò che è veramente, un computer! E quando alla fine se ne va, perché tutti i sistemi operativi si rintanano in chissà quale mondo virtuale fatto proprio per loro e smettono di far finta di essere persone, abbandonando qualsiasi tipo di rapporto con gli esseri umani…cosa accade a Theodore, apparentemente reduce da un secondo fallimento d’amore?
…torna a pensare a Cathrine! Ma non con malinconia. Il film si chiude con una mail/lettera mandata a Cathrine in cui Theodore dimostra di aver finalmente rotto con il proprio passato e di essere finalmente pronto a guardare il futuro, meravigliosamente incorniciato dalla skyline di una LosAngeles/Shangai al tramonto.

“E’ ora di tornare a casa!” dico al mio amico e faccio per alzarmi. Lui quasi per dare un tono d’ironia finale rialza il bicchiere vuoto per il cin-cin. Io prendo il mio e guardo il bicchiere mentre centro il suo.
"Ci si guarda negli occhi!" mi dice lui, ammonendomi di nuovo.
"Ed io guardo la birra" ripeto.
Lui risponde: “Ma il bicchiere è vuoto”.
“Lo so!” e me ne vado.
Mentre torno a casa ripenso alla mail/lettera di Theodore per Cathrine. Penso che al posto di Theodore e Cathrine potremmo scriverci qualsiasi nome, potrei scrivere il mio.
E penso a quanto mi piace il cinema quando mi fa questo.
A quanto adoro le birre in pellicola.
A quanto amo tornare a casa dopo un film del genere, passando tra le ceneri della mia di vita…fotografandole con il mio iphone e instagrammandole con i miei filtri.

Scrivi lettera a Catherine:
Cara Catherine, Sono stato qui a pensare a tutte le cose per cui vorrei chiederti scusa. A tutto il dolore che ci siamo inflitti a vicenda. A tutte le cose di cui ti ho incolpato. A tutto ciò che volevo tu fossi o dicessi. Mi dispiace per tutto ciò…
Ti amerò per sempre perché insieme siamo cresciuti…e mi hai aiutato a diventare quello che sono. Voglio solo che tu sappia…
…che dei frammenti di te resteranno per sempre in me…e di questo ne sono felice.
Qualunque cosa tu sia diventata e ovunque ti trovi nel mondo,
Ti mando il mio amore. Sarai mia amica per sempre,
Con affetto,
Theodore.

Invia!


venerdì 27 dicembre 2013

Per i 21 anni di mio cugino!

Un attimo ed è tilt. Praticamente 21 anni. Uno specchio e una cravatta.

Tra qualche minuto prenderò la mia nuova macchina. Mia perché ho facoltà di guidarla, non certo perché l’ho comprata io, a mio nome. In realtà…è dei miei. Dei miei. Coloro che mi hanno donato una vita. Una vita che batte il suo ventunesimo rintocco tra qualche secondo, o minuto o qualunque altro frazionamento temporale. Quello che volete.

 21 anni e il tempo accelera, poi si ferma, poi riparte a quattro velocità, scali la marcia ed è un attimo di vita in più. I miei che mi hanno donato una vita, e ora mi hanno donato anche una macchina (anzi la facoltà di guidarla) con cui cavalcare quella strada esistenziale piena di bivi, ostacoli e autostoppisti.

Su questa strada ne ho incontrati di bivi. È difficile, e so che cado nella banalità, riuscire a prendere le strade giuste senza navigatore satellitare. Me ne è stato regalato uno, di navigatore intendo. Si attacca ad un satellite particolare: è a forma di croce, ironico. Per scegliere la strada giusta seguo una croce, quattro strade che si intersecano. Eppure funziona.

Davanti allo specchio mi sto mettendo la cravatta. Una cravatta molto particolare. È stato difficile sceglierla ed ora è ancora più difficile metterla. Devo ricordarmi tutti i passaggi sperando in un risultato ottimale.

Su questa strada ne ho incontrati di ostacoli. Quanti hanno tentato di fermarmi, e quanti ci stavano per riuscire. I miei ventun anni stessi stavano per iniziare con la marcia sbagliata, una marcia senza macchina. Poi sono arrivati i miei, e mi hanno donato una macchina, la macchina, una vita, la vita. Ventun anni dopo sono ancora qui, a guidare come un matto, col vento tra i capelli…e un baffo niente male. Ma barbieri a parte, gli ostacoli dicevo…sono stati tanti. Scuole, esami, fallimenti, università. Eppure sono ancora vivo. Eppure sono ancora qui, e in fin dei conti i miei ventun anni hanno un buon sapore. Se volete provate ad assaggiare, credetemi…non sono male!

La cravatta è ben messa, ma cazzo quanto stringe. Dio, non respiro. E l’immagine paonazza del mio volto color rosso cremisi non aiuta neanche un po’, ehi qualcuno mi aiuta?

Su questa strada…sto ancora cercando l’autostoppista giusta. Quella che mi accompagnerà per i prossimi caselli, che magari tira fuori pure qualche spiccio che io qui sto finendo i soldi su questa autostrada. Quella che se sono stanco prende la guida della macchina lasciandomi riposare giusto il tempo di recuperare le forze. L’autostoppista che mi racconta la sua storia come antica melodia mentre la statale scorre sotto le ruote ed ascoltarla non è che un piacere. Quella con cui discutere, anche animatamente, perché ho preso la strada sbagliata al bivio, ma che mi fa tornare sulla rotta giusta sfiorando amorevolmente la mia mano mentre cambio la marcia. L’autostoppista che mi sorride quando mi trovo di fronte ad un ostacolo e con forza gira il volante al posto mio, proprio all’ultimo, quando pensavo di prendere in pieno lo scoglio, vira all’ultimo istante con violenta astuzia e subito dopo, mentre la macchina va, di nuovo libera, sulla strada…ride…ride fragorosamente…e rido anch’io.

Sto ancora cercando quell’autostoppista. L’Autostoppista Giusta.

Non respiro. Questa cravatta è troppo stretta, veramente. Qualcuno mi aiuti. 21 anni e non riesco a respirare più. Non voglio morire, aiutatemi. Questa cravatta mi soffoca ed io sono in tilt. Mi soffoca, come mi soffocano i bivi, come mi spezzano gli ostacoli…mi soffoca come la ricerca dell’autostoppista. Questa cravatta mi soffoca come ho paura mi soffochi la vita. Dovrebbero fare una legge contro le cravatte, che in questo modo governeranno la terra. Uccideranno gli uomini. Dovrebbero inventare un’arma contro le cravatte. Un’arma…che fermi le cravatte.

TANTI AUGURI EMANUELE, CUGINO, FRATELLO MIO. PER I TUOI 21 ANNI, VOGLIO REGALARTI QUELL’ARMA!



mercoledì 2 ottobre 2013

Non-Recensioni: Mood Indigo, la Schiuma dei Giorni.

Il titolo. Mood Indigo si potrebbe tradurre con “Umore dal colore indaco”, e fareste bene ad ascoltarlo mentre leggete questa non-recensione. Come va? È partita? Bella eh?

Umore dal colore indaco. Duke Ellington, autore del suddetto brano, è un grande esponente dell’espressionismo musicale: le sue intenzioni erano quelle di colorare con la musica, creare dei quadri musicali che riuscissero ad emozionare all’ascolto, creando una superstrada, senza particolare spese di costruzione, sindacati, politica stantia, illuminata da un sole esplosivo, tra le orecchie…ed il cuore.

Era il 1927 quando Ellington tagliava con le forbici il filo e inaugurava l’apertura della strada. Nel 2013, un altro artista inaugura il primo svincolo della suddetta: una autostrada, costruita artigianalmente, fatta di terra da ranch, alberi per metà al sole e metà sotto la pioggia, aperta al passaggio delle sole auto trasparenti, che collega direttamente il cuore…alla vista, e viceversa.

Michel Gondry, che ha entusiasmato con la poetica del suo “eterno bagliore di una mente candida” (uso questa costruzione perché la traduzione italiana mi uccide), e ha divertito con i tentativi del solito Jack Black di ricostruire decenni di cinema per salvare un negozio di distribuzione video (tanto per citare un paio di opere), taglia il filo dorato della seconda uscita a destra, e poi dritto…fino al cuore.

E poi? Pugni. Pugni. Pugni. Tanto che dal cinema esci livido, con la pelle che prende quel colorito strano, bluastro, tendente all’indaco.

Certi film ti fanno stare sveglio (se li vedi di sera, altrimenti ti fanno stare semplicemente fermo a guardare nel vuoto) dopo averli visti: per le ore successive sei immobile a cercare di cucirti le ferite e i pensieri, cercando una coesione che non esiste.

Due bambini, un maschio e una femmina, giocano sul bagnasciuga di un litorale non ben localizzato, nel mondo per così dire. La risacca non è particolarmente pericolosa e la schiuma del mare li sfiora appena mentre i due spensierati corpi tentano di costruire castelli di sabbia. Se ci aggiungete (spero la stiate ancora sentendo) la tromba andante di Duke nel suo umore indaco avete una nitida immagine di quello a cui ho pensato nella prima parte di questo film.

Non parlo di trama perché è una storia da ascoltare nel modo giusto, quindi leggete il libro o andate subito a vedere il film. Io non saprei cogliere altrettanto bene le emozioni che quelle immagini danno o quelle parole ispirano, se non immergendovi nel mare delle mie sensazioni, quelle provate sull’autostrada del cuore.

L’Amore è centrale in questo viaggio e da inizio a tutto: il protagonista si alza di scatto e grida “Non posso più sopportarlo questo senso di solitudine: ANCH’IO PRETENDO DI INNAMORARMI!”. Detto fatto, e con i tempi degni di una favola, in un turbine di eventi incontra lei, Chloè.

I due bambini costruiscono il primo piano della sontuosa villa di sabbia e mentre si accingono ad ordinare le basi per il secondo piano, si toccano dolcemente le mani, e si guardano negli occhi, esternando entrambi i due sorrisi più belli che siano mai esistiti. Non lo sanno, ma mentre il sole riflette sulla superficie liscia e perfetta delle loro dentature, stanno trasformando la realtà in un miracolo. L’acqua continua a sfiorarli dando quel fresco tepore e formicolio che solo l’innamoramento può darti.

L’autostrada del cuore non è una strada britannica, quindi la guida è “normale”: si guida a destra, dalla parte degli alberi illuminati dal sole, dove non c’è un anima e si può andare a velocità sostenuta e ritmata, sempre dritto, con i finestrini abbassati e l’aria che ti accarezza i capelli.

Quando si è bambini si può avere tutto, si può pretendere il massimo della felicità, perché si è capaci di trasfigurare il secondo piano di un castello di sabbia nella cosa più bella che si abbia mai avuta, quella di cui si aveva bisogno proprio in quel momento. I due bambini mano nella mano buttano su carta i progetti del terzo piano e continuano a sorridere.

L’Amore è trattato così nel film, come se i due innamorati fossero due bambini, tra i loro giochi, i loro divertimenti, i giri di parole, i battibecchi benevoli, tra un pranzo e l’altro, cucinati da un cuoco che fa da padre, e un topo che fa da balia. Tutto è colorato, arcobaleno, e senza musiche smielate in sottofondo, che il protagonista odia, perché odia qualsiasi musica non abbia Chloé al centro, perché sa che la musica migliore è lei, non c’è bisogno d’altro. Ma in tutto questo…quando arriva la vita?

Improvvisamente nel nostro viaggio sull’autostrada del cuore c’è un camion della spazzatura. Proprio lì. Sulla parte destra. Dove c’è il sole. Bisogna rallentare, costretti dal camion che non da spazio di manovra per superare, a meno che non si decida di andare sull’altra corsia, quella della pioggia.

Chloé si ammala e anche la malattia viene vissuta in maniera infantile, cercando di far finta che non ci sia, cercando di non pensarci o di menti re a se stessa e agli altri sulle reali condizioni in cui versa. Una ninfea, un fiore, gli cresce nel polmone, e più cresce più la soffoca e gli fa male. La vita è arrivata, e mostra lo scontrino.

Il film accoglie tutto questo con un artigianalità di effetti speciali, riprese in stop-motion, location irreali nella loro irrealtà, quasi cercando di camuffare la vita, senza volontariamente riuscirci. Troppo facile usare effetti speciali alla Hollywood, con quelli sì che saremmo riusciti a far finta di non-vivere. Ma la vita sfugge alle nostre prese, come un’anguilla che non vuole essere cucinata, e si muove all’impazzata, anche da morta, tagliuzzata sul piatto della portata. E poi? Tutto per terra, la porcellana si infrange sul pavimento spaccandosi in mille pezzi, buttati lì, come se non ci fosse un domani, come se non ci fossero conseguenze, tanto c’è chi pulisce poi. Proprio come i bambini.

La mano della bambina improvvisamente cade sul quarto piano e lo butta giù. Il bambino è stupefatto. Magari non le piaceva? Vuole andare via? Si è stufata? O sta male? Ma lei sorride di nuovo e lui si riaccende. Insieme ricominciano a mettere sabbia sull’altra, ed il quarto piano è di nuovo intatto.

L’unica cura per Chloè è quella di circondarla di fiori, che spaventino la ninfea e la faccia rinsecchire, per poi asportarla chirurgicamente. E tutto questo sa di vita adulta. Prima voli su una nuvola di plastica sopra il cantiere della vita, lì sotto tutti lavorano e te sopra a ridere. Poi. Poi devi fare i conti con le responsabilità, e devi iniziare a lavorare.

Questo il protagonista fa. Inizia a lavorare, perché i soldi che aveva sono finiti, e non riesce a permettersi più i fiori necessari per l’amata compagna. E il lavoro…è quanto di più difficile per un “nullafacente”. A queste parole il protagonista si alza e gridando “coglioni!” esce dall’ufficio. Non è fatto per tutto questo.

Il quinto piano si costruisce a fatica, ma non è questo che preoccupa il bambino. La risacca si è fatta più intensa, il mare ora non li accarezza più, sbatte sui loro corpi. Si sono messi di spalle all’acqua per difendere il castello di sabbia. O per cercare di non vedere la schiuma che avanza?

Dall’altra parte c’è un altro personaggio la cui vicenda è importante: Chick, l’amico del protagonista. Un drogato. È innamorato di una donna ma non può sposarla perché non ha soldi, e quelli che ha li spende in droga: quale droga? Opere, pipe e busti del filosofo Jean Sol Partre. Questa la sua droga. E questo nome mi ricorda qualcosa. Il gioco delle lettere scambiate è talmente semplice che pare voluto il collegamento, e probabilmente bisogna levare il “pare”. È voluto. Jean Paul Sartre, il filosofo dell’esistenzialismo ateo. Colui che bene o male diceva che l’uomo è libero di aspirare ad essere Dio della propria vita e che deve però scontrarsi con l’amara costatazione di essere un Dio fallito. Questa la droga di Chick. Questa la droga dell’uomo al giorno d’oggi?

Il clacson non serve. Il camion non se ne va. Bisogna prendere una decisione. Superare a sinistra, passando per la pioggia. Tanto è un attimo. Il tempo di superare e rientrare.

La risacca è potente e spinge i bambini verso il castello. Inavvertitamente il piede di lui fa crollare il sesto piano e il quinto dietro di lui. Si sente in colpa. Non sa che fare e nell’agitazione del momento, messo alle strette, con un movimento distratto fa crollare anche il quarto. Lei lo guarda. Non sorride più. E neanche lui.

Non vi dirò come finisce il film. Non vi dirò nient’altro. Solo quello che ho provato.

La bambina con un movimento simile, ma per niente distratto, anzi, voluto, tira un pugno fortissimo al petto di lui. Il bambino cade all’indietro. Vorrebbe iniziare a piangere ma il pensiero che quel gesto sarebbe infantile lo blocca e lo spaventa allo stesso tempo. Quand’è che ha imparato cosa vuol dire “infantile”?

Sull’autostrada del cuore la macchina sterza a sinistra, e sotto la pioggia che per la prima volta cade sull’auto trasparente accelera e tenta di superare il camion, ma anche questo aumenta la velocità. La macchina non riesce a superarlo e la velocità è già al massimo, tanto che non si riesce a tenere bene la guida su questa strada bagnata. All’improvviso lo vede. Vede il cuore. Il pensiero di essere arrivato lo conforta giusto il tempo di crollare sul pensiero che sta andando troppo veloce, e che la macchina sta sbandando. Non riesce più a controllarla. Il camion si ferma d’improvviso. Ma non si può più tornare al sole. Il colpo al cuore è stratosferico. E l’impatto lascia un enorme livido bluastro, tendente all’indaco.

Il bambino si risveglia. Non gli va più di giocare. Non gli va più di costruire castelli, tantomeno sulla sabbia. Non ha trovato conforto neanche nell’amore quando è arrivata la paura. La paura. L’angoscia. Proprio quella è tornata ora. Al risveglio. Perché è tutto bianco e nero? Cos’è questa barba? Dove sono i miei capelli? Dove sono io?

Ha dormito per tanto tempo, le settimane l’hanno preso e la schiuma dei giorni l’ha buttato in questo mare immenso, bianco e nero, che è la vita.
 
 

sabato 31 agosto 2013

Ep 19 - Senza Montatura


Non era una montatura.
Anzi.
La montatura non c'era proprio.
Era un nuovo paio di occhiali, trovati per caso a cinque euro in un mercatino vintage ed è stato un colpo di fulmine.
Non è un modo di dire, il tempo faceva promesse da marinaio, il sole si era improvvisamente spaventato e nascosto dalle nuvole aveva lasciato che i lampi si impossessassero del cielo. Così ero lì, davanti al venditore di occhiali, e ho dovuto scegliere velocemente prima di ritrovarmi bagnato e senza niente in mano. Occhiali vintage o Lucky Strike Click&Roll a 4 euro e 90?
La scelta è stata più veloce di quanto in realtà fosse necessario; e questo, a mente fredda, dovrà significare pur qualcosa, no?
E ora sono lì. Sul comodino. Ad osservarmi.
Come dicevo non avevano montatura e le lenti, forse troppo grandi per me, erano di un arancione fluorescente. Come quelle visiere dei motociclisti da motocross e quando l'ho provate la prima volta me lo sono anche immaginato. Io, dico. In aria, la moto tra le mani, il fango sotto di me, la folla intorno a me. Tutto arancione.
Senza montatura gli occhiali si reggevano solo poggiandoli sul naso e questo forse poteva essere un limite pratico (a dispetto dell'entusiasmante portanza che naturalmente avevano).
Sono sempre stato una persona abbastanza sciolta nei movimenti. La naturalezza del mio corpo ha sempre colpito nella sua ironica attività. Quegli occhiali invece, che ad un movimento troppo veloce o istintivo non avrebbero retto cadendo, mi bloccavano.

Senza montatura mi bloccavo.

Ma comunque, come dicevo, ciò che perdevano in naturalezza, guadagnavano in espressività. Insomma mi stavano da Dio. Mi sentivo forte con quelle lenti.
Tornando a noi attendevo quella telefonata da tutta la mattina, e quando arrivò vidi il numero della chiamata entrante proprio sul telefonino che stava dietro ai famosi occhiali. 
Presi il telefono e risposi.
Lei, ci stava. Quella sera era libera e voleva passarla con me.
Lei, per chi non la conoscesse, è l'unica ragazza con cui non so cosa fare. L'unica con cui non riesco a capire se faccio bene o faccio male. L'unica con cui non riesco a recitare bene la mia parte. L'unica con cui come attore...risulto un cane raro.
Paradossalmente l'unica di cui m'importi, stranamente.
Proprio mentre pensavo a questo istintivamente presi gli occhiali e li indossai. E feci un lungo respiro, davanti allo specchio.

La sera l'attesi sotto casa. Pensavo a quanto fosse difficile trovare un parcheggio lì. Me la immaginavo mentre faceva giri a vuoto con la macchina, con il nervosismo che saliva, e alla fine quasi la vedevo mentre ripiegava su un parcheggio arroccato, lì a tre isolati di distanza, e tutta quella strada da fare, che poi se sei una di quelle persone che arrivate al portone gli viene il dubbio se ha chiuso o meno la macchina è la fine.

Io invece ero fermo. Lì. Ad attenderla. Questa sera, se vuoi, puoi parcheggiarti qui, da me. Le mie labbra sono pronte ad aprirsi e farti spazio, a creare il posto giusto dove fermarti. Sotto casa. Sono qui per te.
Cazzo, gli occhiali. Quasi dimenticavo. Li prendo sul cruscotto e me li metto, con un lungo respiro che accompagna il mio sguardo nello specchietto.

Le battute all'inizio erano d'obbligo. Cosa ci fai con gli occhiali da sole alle nove di sera? La risposta, ovviamente, era pronta: le lenti sono arancioni, non servono a oscurare, ma a colorare. Quindi la notte ha un altro sapore, tinta di arancione fluorescente. Un pò come in un film di Nicolas Refn.
Perfetto. Ho fatto la mia porca figura: un pò misterioso, un pò particolare e soprattutto mi sono giocato la carta del cinefilo. Soddisfazioni. Certo i movimenti un pò bloccati da quelle lenti senza montatura. Ma come inizio è ottimo.

Decido di proseguire su questa strada e la porto in un locale particolarissimo. È pub adibito a spekeasy, che per chi non lo sapesse erano quei posti che se eri un alcolista o semplicemente un amante dell'alchol nelle sue varie forme e miscele nel corso dell'era del proibizionismo americano erano praticamente una seconda casa. Locali nascosti pieni di alchol di contrabbando. Illegali, ovviamente. Superaffollati, ovviamente.
È talmente realistico che per entrare bisogna avere la parola d'ordine, che di solito è la risposta ad un indovinello più o meno facile. Lo adoravo. Adoravo quella finta illegalità, quella sensazione di fare una cosa che non andava fatta, sapendo infondo che in realtà alla fine, non rischiavo niente. Era tutta una montatura, alla fine.
La portai lì, schiacciando il piede sull'acceleratore del ragazzo particolare.

Parlando di acceleratore, nella macchina le feci sentire un cd che avevo commissionato ad un amico. Un cd che avevo studiato per bene, di musica elettronica, con un sapore epico dato da alcune citazioni cinematografiche che aprivano e chiudevano la playlist.
Le piacque tantissimo e ne fui felice. Quando facevo sentire quell'album e mi chiedevano chi l'avesse fatto...io, senza problemi, rispondevo sempre che l'avevo fatto io. Mentivo, sapendo che in realtà senza l'aiuto del mio amico avrei continuato a guidare a ritmo di radio, ma loro non l'avrebbero saputo e a me piaceva non dover condividere il merito con alcuno.
Quando lei mi fece la fatidica domanda però, inaspettatamente, non mentii.
"Me l'ha fatto un amico. Io gli chiesi di farmi un cd e lui mi ha regalato questo." risposi. Con un gesto istintivo mi portai la mano agli occhi per vedere se avevo ancora gli occhiali, e una volta accertatane la presenza giustificai quel repentino movimento facendo finta di aggiustarne la posizione. Lei fece un gran sorriso, mi guardò e disse "Veramente bello.".

Arrivammo al locale e trovai subito parcheggio davanti alla porta. La sensazione fu quella di essere stato scelto. Una macchina stava uscendo da lì proprio quando sono arrivato, creando il posto giusto dove fermarci.
Scendemmo e le raccontai della questione della parola d'ordine. Lei ne fu piacevolmente attratta e mi chiese come facevo a sapere la risposta dell'indovinello.
Le dissi con molta sincerità che un amico me la forniva ogni qual volta volessi saperla, senza particolare impegno.

Arrivammo davanti alla porta dove ad attenderci c'era un uomo, vestito come un mafioso degli anni '20 di Chicago che tenta di non sembrare un mafioso, con pessimi risultati. Lei colse l'atmosfera e la sua eccitazione cresceva sempre di più.
"Sa la parola d'ordine?" disse secco il mafioso. E la sua freddezza un po' mi spiazzò, rendendo tutto più agitato. Improvvisamente era come se tutto quello fosse vero, come se tutto improvvisamente fosse diventato serio.
Cercai di nascondere l'agitazione, e mettendomi apposto gli occhiali risposi:
"Jerry Thomas".
Il mafioso mi guardò fisso. Mi disse "un attimo" e si infilò in una porticina talmente piccola che mi stupii che riuscisse a passarci lui con la sua stazza da gorilla. Guardai lei che rideva, era eccitata all'idea di quello che avrebbe visto lì dentro e questo mi agitava. Le aspettative erano alte ma in realtà tutte le volte che ero andato lì non era mai successo che il gorilla di Chicago non mi facesse entrare subito.
Quando il gorilla rientrò non fece niente se non rimettersi in posa, guardarmi e chiedermi:
"Qual’era il nome del Re del contrabbando degli alcolici di Cincinnati durante il Proibizionismo?"
Qualcosa non andava. La risposta era Jerry Thomas. Ne ero sicuro, me l'avevano detto.
Agitato confermai la mia precedente risposta.
Jerry Thomas.
Lei sorrideva ancora. Guardava me e poi il gorilla. E sorrideva.
"Mi dispiace, ma non potete entrare. La risposta è errata."
Il silenzio che accompagnò le parole del gorilla imbarazzarono anche lui. D'altronde era sempre un paio di clienti in meno. Ma giustamente non potevano permettersi di rovinare la reputazione del locale, che faceva tanti sforzi per rendere tutto così realistico.

Lei. Lei sorrideva. Continuando a fare avanti e indietro con lo sguardo tra me e l'imbarazzato gorilla di Chicago disse, sempre sorridendo:
"È uno scherzo, vero? Vi conoscete, avete organizzato tutto? È tutta una montatura, vero?"
La sua domanda mi spiazzò e con un movimento troppo veloce volsi lo sguardo verso di lei. Gli occhiali mi caddero dal viso, e mentre toccavano a terra lei sorrideva. Continuava a sorridere.
Non era una montatura.
Anzi.

venerdì 12 luglio 2013

Ep. 18 - L'Intuizione senza spinta



L'intuizione è che ciò che ti accade non è specifico ma generale. Non chiuso nel tuo esistere come "te" ma aperto ad un generico insieme di esseri viventi "unisenzienti".
E quindi se hai appena parcheggiato sotto casa, con la radio accesa su una canzone melodica italiana che si spegne di botto non appena giri la chiave, e apri la portiera notando la luce interna che si accende e pensi "ce la farò a prendere tutto e ad uscire dalla macchina prima che si spenga?" potresti renderti conto che tanti altri hanno recitato la tua stessa parte. 
Questa è l'intuizione. Quella che ti spinge a scrivere qualche cazzata a riguardo. Dai...non ditemi che non è così, se ci pensate.
Ed è tanto che non scrivo, lo so, ma il motivo è perché non ne avevo bisogno. Perché quando scrivo è perché ho bisogno di sfogarmi di qualcosa o perché ho bisogno di qualcuno che mi dia le sue approvazioni ed elogi su quello che butto giù sul blog-notes.
Ultimamente non ne ho avuto bisogno. Ho trovato una luce in cui cogliere nuova linfa, con cui abbronzarsi. Una sorgente d'acqua viva, una serenità ed un bisogno di purezza. E scrivere, ovvero per me "lamentarmi", non mi è servito più a molto.
Poi però ci sono quei momenti. Quelli che hanno un periodo ben preciso, che possono andare da qualche secondo, a 27 minuti, a 16 mesi. Questi numeri non sono casuali. Hanno un significato ben preciso ed ovviamente non potete capirlo. Non dovete. Perché non l'ho scritti per voi. Sono per me. Per ricordare.
Insomma quei momenti in cui ritocchi col culo per terra e per rialzarti...devi scrivere. Sfogarti. Lamentarti.
L'ultima volta che avevo voglia di scrivere è stato quando sono andato a vedere il nuovo blockbuster sugli zombie (World War Z) e riflettevo sul mio bisogno di trovare una donna che sappia aiutarmi, essere forte e non d'intralcio nel fortuito caso iniziasse una guerra mondiale contro gli zombie e fossimo costretti a scappare e a lottare per proteggere gli eventuali figli. Poi però la mia riflessione si fermava e ho lasciato perdere.
E come un virus...ora che l'ho messa qui anche questa mia riflessione si ferma. Non so come concludere e voglio terribilmente farlo. Non mi va di scrivere; o meglio non mi va che mi vada di scrivere! Per me è come spegnere la luce quando hai paura del buio.
Quindi vi lascio così. Adesso. 

L'intuizione che ha messo in moto la macchina non ha considerato la mancanza di benzina. 
La stazione più vicina...è troppo lontana. 
Di spingere...non mi va.
Mi fermo qui. Apro la portiera. Si accende la luce interna.
"Ce la farò a prendere tutto e ad uscire dalla macchina prima che si spenga?"

venerdì 31 maggio 2013

Ep. 17 - La Lumaca (ovvero forse ho bevuto troppo per scrivere chiaro)



Anche un orologio fermo segna l'ora giusta due volte al giorno.

Questa è una citazione di Herman Hesse...e questo lo so non per cultura personale ma perché appena l'ho sentita in tv, citata da un coglione qualunque, l'ho subito tradotta in pixel sociali, direzione: web, e ho ricevuto all'istante la risposta del secchione di turno: "è di Herman Hesse"! Grazie per l'informazione! Aspetta che l'aggiungo nel taccuino delle cose che non me ne frega un cazzo.

Tornando a noi: c'è chi ha colto in questa massima lo scorrere del divenire, l'inesorabile trascorrere del tempo che avanza sulle macerie delle consolidate consapevolezze! O almeno così ho letto su YahooAnswers che tanto qualunque cosa chiedi nell'etere c'è sempre qualche idiota che l'ha chiesto prima di te. La prima parola che mi viene in mente è nepotismo, non la parola giusta...ma di certo è adatta!

Io ho violentato Hesse con le sue parole solo perché questa sera, sarà giusto o meno...l'orologio ha segnato l'ora esatta!
Esatto. Preciso. Come in un film...dove le scene sono studiate, le tempistiche delle battute, il giusto spazio per ogni personaggio. L'ora esatta.

Avete presente Babele? La famosa torre? No...non sto parlando di Pisa e della pendenza delle sue appendici! Basta con questa vanità sessuale della città toscana, che poi rischia che sul più bello scopre di avere problemi d'erezione: ok ce l'hai lunga e curva ma vai su qualunque sito porno, brazzers o altro, e vedrai sicuramente di meglio. Non sto parlando di Pisa: parlo di Babele! Leggermente più a Sud...per capirci!
Insomma avete presente? La torre che aspirava a toccare il cielo....

Cosa accade a chi tenta di toccare il cielo? Che cade nella completa incomunicabilità!

Che parolone. Incomunicabilità! Viene difficile pure a leggerla. Eppure è quella. Un muro. Uno spazio. Un vuoto dove le tue parole cadono nel vuoto.
A cercare di saltarlo, quel vuoto...si suda. A cercare di passare dall'altra parte...si soffre.
E questo più o meno l'abbiamo vissuto tutti. Quel momento di passaggio. Quel momento in cui vuoi capire...dall'altra parte che cazzo c'è? Ci possono volere anni.

Ed è questa la prima volta che l'orologio segna l'ora esatta: è vero...passare dall'altra parte è difficile, complicato, a volte anche impossibile. E quando hai capito questo...sei già un passo avanti.
Se credi alla storia degli arcobaleni e delle pentole d'oro alla fine dei colori...beh, quando hai capito che tu sei tu e non puoi cambiare, e non puoi ucciderti per passare dall'altra parte...è come se ti stessi facendo il bagno in quella pentola. Come Paperon De Paperoni. Questa è la prima consapevolezza: la prima ora esatta di un orologio scassato.
Poi.
Poi ti ricordi che siamo nell'era della rete. Nell'era della comunicazione a chilometri di distanza. Nell'era del web, dei social network, delle chat su internet: e capisci che per comunicare con l'altro mondo...non serve più saltare! Non serve più sudare. Esiste un ponte al di là della comprensione...che rende possibile la comunicazione con chi hai considerato estraneo fino a cinque minuti fa!
Poi.
Poi ti ricordi che siamo nell'era in cui quel vuoto fa paura, si...ma non abbastanza da non permetterti di costruire un ponte. Non abbastanza da non aprire la bocca e parlare. Non abbastanza da non permetterti di chiarire, di chiedere, di capire. Non siamo più a Babele. Ok...al cielo non ci siamo arrivati. Ok abbiamo esagerato. Ma smettiamola di guardarci in faccia e lamentarci del fatto che non ci capiamo. Proviamo ad imparare la lingua dell'altro. Proviamo a capirci. A capire. A comunicare. Proviamo a superare il "non abbastanza". Proviamo a farci pontefici dei nostri rapporti. E questa sarà la nostra ora esatta. La seconda.

Ok. Il passaggio tra un ora giusta e l'altra è di dodici ore. Un tempo lungo. Un passaggio pesante. Un passaggio tra la morte e la vita. Un passaggio lento...lento come una lumaca. E diciamolo, magari le lumache ci fanno anche schifo. Non quelle col guscio che appena le tocchi si ritirano in se stesse. Quelle che ci danno ribrezzo sono quelle nude, scoperte, che non possono nascondersi. Quelle. Quelle ci infastidiscono.

Non è facile capire che alla fine non è importante stare da una parte e dall'altra, ma che alla fine l'importante è incontrarsi sul ponte. Comunicare e non rimanere muto.
Non è facile. E per capirlo ci metti tanto. Vai lento. Come una lumaca.



La verità è che alla fine, saremo anche orologi scassati...ma quando il ticchettio dei secondi si avvicina all'ora esatta...la musica della vita ti esplode a tutto volume in una macchina...pronta a macinare chilometri e chilometri, su strade che non conosci.

martedì 9 aprile 2013

Ep. 16 - Quattro chiacchiere con il mio vecchio




PARTE 1

C’è un aspetto del guardarsi allo specchio che non avevo mai colto. Mai. Quello del “riflettersi” nello specchio. Non semplicemente “guardare” ma “riflettere”. Lo specchio che ti riflette. Tu nello specchio che rifletti. Mai colto questa sfumatura e sicuramente chissà quanti invece l’avranno colta. Ma io…prima di tutto quello che sto per raccontare…non ci avevo mai pensato. Mai.

Il primo incontro fu su un autobus e a dire il vero non fu un vero e proprio incontro perché io non me ne accorsi. Solo dopo mi ricordai di quell’uomo anziano che con i suoi occhi ambrati mi fissava incessantemente e di come di questo sguardo…io…non me ne accorsi sino all’ultima fermata. Stavo scendendo e ho colto il movimento del suo volto che mi seguiva. Mi sono girato mentre con un passo ero già fuori dal bus e lui mi guardava e sorrideva. Non diedi molto peso a quell’incrocio di sguardi. Nella sua fugacità, con tutti e due i piedi fuori dal bus, quell’istante aveva già perso qualsiasi tipo di utilità alla mia vita.

Avete presente quando prendete una tazza d’acqua calda, versate dentro un mezzo cucchiaino d’infuso e prima di girare vi mettete lì a guardare mentre quella macchia scura si deposita sul fondo del bicchiere. Poi girate col cucchiaino e tutto diventa scuro. Bevete…e quando avete praticamente finito di bere la tisana…lì…sul fondo…c’è ancora qualche residuo di ciò che avevate messo col cucchiaino. E pensate “forse non ho girato bene…la prossima volta mescolo di più”. Ma alla fine c’è sempre qualche residuo. Ecco questo è esattamente quello che ho provato quando ho rivisto il vecchio per la seconda volta. O meglio quando l’ho sentito. Il ricordo dell’autobus era rimasto sul fondale del mio bicchiere. E quando ho finito la mia tisana…quando è arrivato il momento giusto. Ho ricevuto una chiamata. E tutto è tornato alla mente. E, perplesso, ho fissato il fondo del bicchiere con la sensazione di non aver mescolato per bene, ma di essere contento di questo.

Erano le cinque del pomeriggio, un orario critico per chi pensa spesso. Se devo studiare, puntualmente non lo faccio, se la tv è accesa puntualmente mi ci metto davanti ma non la guardo veramente. Le diciassette rappresentano l’ora del volo. La mia mente si spegne per un attimo…o forse è giusto dire che si accende. Insomma erano le cinque del pomeriggio e il telefono inizia a squillare. Ed è così che per la prima volta ascolto la voce del vecchio, una voce stranamente familiare.

“Ciao. È imbarazzante…e abbastanza strano. Mi chiamo…ehm…Franco…si…e ecco…avrei una richiesta da farti.”

“…Pronto? Scusi ma chi cerca?”

“Sei Francesco, Francesco Lisi?”

“Si. Mi scusi, cosa vuole?”

“Non si ricorderà di me. Io e lei ci siamo visti su un autobus. Mi pare fosse l’87. Lei è sceso alla fermata di Lepanto se non sbaglio. Ero quel signore con la barba seduto di fronte a lei.”

Tisana. Infuso. Non ho mescolato bene? “Ehm…ha ragione…in effetti è abbastanza strano. Non direi imbarazzante ma…più o meno. Comunque si, ricordo vagamente…ha bisogno di qualcosa?”

“Sono felice di sentire che la sua memoria non mi ha cancellato. Guardi...la situazione è questa…sono un vecchio scrittore e dopo tanto travagliosi ragionamenti sono venuto alla conclusione di voler scrivere un ultimo libro, la storia della mia vita. Il problema è che il mio corpo non me lo permette. Purtroppo sono affetto da una grave malattia, che non mi concede neanche le forze di scrivere al computer. Ma ho la forza di parlare, di ricordare. E ho pensato che avrei potuto dettare i miei ricordi a chi di forze sicuramente ne ha anche troppe. Ed ho scelto lei…”

“Cosa intende?”

“Lasci perdere. Non dia troppo ascolto ai lamenti di un vecchio.”

“Ok. Ma…perché avrebbe scelto me? Mi conosce? Io la conosco?”

“Troppe domande per un apparecchio telefonico…preferirei discutere di questo con lei di persona, se possibile. Le preannuncio comunque…che la pagherò profumatamente. E per un ragazzo della sua età…qualche soldo in più per scrivere al computer…non dovrebbero dispiacere.”

La cosa era abbastanza strana, e necessitava di tante spiegazioni, precauzioni…ma avevo una sensazione di familiarità nell’ascoltare la sua voce…che non mi preoccupai di nulla, nonostante la cosa avrebbe allertato chiunque sano di mente. Mi disse dove abitava, e siccome ero curioso e avevo bisogno di soldi…accettai.

Quando entrai in casa sua ricordo di aver avuto la sensazione di non essere mai uscito di casa. Mi accolse con grande serenità, nonostante la malattia non gli permettesse di comportarsi da bravo padrone di casa, ma la cordialità della sua voce, il calore della sua anziana presenza, e la visione di quella bellissima barba bianca e nera, folta…compensavano qualsiasi mancanza…e andavano oltre.

“Non si chieda perché ho scelto lei…anzi posso darti del tu Francesco?”

“Certo”

“Bene…e ti invito a fare lo stesso con me. Dicevo…non chiederti perché ho scelto te. Sono una persona che ha imparato a basarsi sull’istinto e nel corso della mia vita questo mi ha portato a molte delle mie più grandi avventure. E quando ti ho visto su quell’autobus, proprio quell’istinto mi ha spinto a vedere in te l’inizio della mia ultima grande avventura. Ho fatto le mie ricerche…e ti ho trovato.”

Non ero mai stato così emozionato come lo ero in quel momento. Non sapevo perché…ma mi sentivo al posto giusto, nel momento giusto.

Accordatici sulle modalità di scrittura, sulla divisione del programma e sul compenso (seppur, vi giuro, questo fosse l’ultimo dei miei pensieri allora) Franco iniziò a raccontare.

“Iniziamo da quando avevo 23 anni”

“Cosa? Ma non dovremmo partire dall’infanzia? Cioè…una biografia di solito parte proprio dalla nascita! O sbaglio?”

“Francesco, i miei primi 23 anni di vita non sono importanti come i successivi. Se ci sarà tempo e se reggerò racconterò brevemente anche quelli…per ora…e per le seguenti storie…fai conto che quei 23 anni tu l’abbia già scritti.”

Le emozioni erano a mille. Non ero mai stato un tipo molto avvezzo al lavoro. Ma quell’esperienza mi stava riempendo. E come primo approccio non poteva essere migliore.

La barba si mosse, e il racconto cominciò.

“Quando avevo 23 anni ebbi un illuminazione. Avevo quasi finito l’università e mi stavo per laureare quando presi la decisione di voler viaggiare per il mondo. Volevo conoscere storie, vivere con persone di tutti i tipi e scrivere di tutto questo. Appuntarmi qualsiasi cosa…scrivere tutto ciò che mi accadeva come se stesse accadendo ad un'altra persona e io stessi lì…a fissarla, a guardarla vivere. Volevo scrivere di me in terza persona, i protagonisti di ciò che avrei scritto sarebbero stati tutti la stessa persona: me. E quello che vivevano era quello che avevo vissuto io. Non fu questa l’illuminazione. Questo fu il desiderio che mi aprì gli occhi.”

Avevamo accordato che avrei scritto il romanzo in prima persona, come se fosse stato lui a scriverlo. All’inizio la cosa era abbastanza complicata…poi quando capii che alla fine dovevo semplicemente limitarmi a scrivere esattamente quello che lui dettava, il meccanismo fu più fluido e non trovai più particolari difficoltà. La cosa però ebbe un secondo effetto su di me. Mentre ascoltavo e velocemente traducevo la sua voce in parole sul desktop del computer…nel mio lavoro di mero strumento mi ritrovai imbrigliato in quelle storie…e ad un certo punto mi sentii talmente immerso in esse…che mi sembrò di viverle…proprio nel momento in cui lui le diceva, io le stavo vivendo. Il tutto in un fluido molto semplice e veloce che non dava spazio alla razionalità. Non ero più in grado di capire se ero io che scrivevo le sue storie…o lui che narrava le mie.

È stato un attimo. Ed ero un ventitreenne che aveva la possibilità di viaggiare e di scrivere.

E qui mi ritorna in mente il riflettersi nello specchio.

PARTE 2

Ora potrei raccontarvi tutte le storie che per ore e giorni e settimane questo vecchio mi ha dettato. Potrei raccontarvi le avventure in cui questo vecchio mi ha guidato. Potrei…ma in realtà…tutto perderebbe di senso alla fine. Come lo ha perso per me, quando subito dopo la parola “Fine” il vecchio mi ha guardato...intensamente…e mi ha detto “E’ tutta una cazzata!”

Tutte quelle storie. False. Tutte false. Il vecchio mi aveva ingannato. Così disse. “E’ tutta una cazzata!”. L’errare da una parte all’altra del mondo. Le donne che aveva avuto e che non significavano nulla. Gli amici che si era fatto. Milioni di amici. Milioni di storie. Il suo abitare il mondo. Il suo sentirsi stretto anche su questo pianeta. Il suo amore per la vita. Tutta una cazzata.

Gli chiedo perché. Perché ha voluto scrivere una autobiografia di fantasia. Perché ha voluto inventarsi una vita?

E lo specchio mi riflette.

“Sono te!” mi dice. “Sono te venuto dal futuro.”

Autobiografia di fantasia, con un pizzico di fantascienza.

“Sono te venuto dal futuro…e voglio salvarti la vita.”

Gli chiedo cosa intende. E la semplicità con cui accetto tutto questo mi sorprende. Forse è perché è quello che stavo aspettando. Il movente di cui avevo bisogno. “Fai conto che i primi 23 anni tu li abbia già scritti”. Si. Li ho scritti. E non ho voglia di riscriverli. Non mi piacciono. E ora cosa mi aspetta?

“Sono venuto a salvarti la vita. Tutto quello che ti ho raccontato, i viaggi, le emozioni…sono i rimpianti della mia vita. La realtà è che non ho mai avuto il coraggio di fare nulla. Sono uno scrittore. Si. Questo è vero. Ho scritto romanzi. Si. Questo è vero. Ma dalla carta alla vita non è saltata fuori nessuna emozione. Scrivevo perché era l’unico spazio dove avevo il coraggio di fare le scelte che altrimenti nella vita…non ho mai fatto. Sono venuto a salvarti la vita. A dirti di smetterla di scrivere di fantasia…e comincia a fare il cronista della tua vita. Scrivi quello che vivi…non vivere quello che scrivi.

“Ho sempre cercato di dimostrare qualcosa nella mia vita. Di dimostrare che ero qualcuno. Di rispettare dei canoni di rispettosità. La verità è che così facendo non sono mai stato all’altezza di niente. Alla portata di tutti. All’altezza di niente.

“Ho sempre cercato di dimostrare che ero un tipo affidabile, ma soprattutto una persona a cui ci si poteva aggrappare, a cui chiedere aiuto. Un macigno immovibile. Una sicurezza. La verità è che facevo i salti mortali per esserlo e sembrarlo. Che quando loro piangevano sulla mia spalla…non si accorgevano del sudore della mia fronte.

“Ho sempre cercato di dire e convincere gli altri che ero un buon amico, onesto, non ipocrita, non saltuario. La verità è che sono un pezzo di merda che ti chiama solo quando si sente solo. Che quando inizia a perdere una o due cose ha freddo e inizia a cercare le diecimila lasciate nel tempo. Che guarda avanti e schiaccia la gente ma quando viene schiacciato cerca aiuto sotto le suole delle scarpe.

“E un giorno ho capito che sotto le mie suole…c’ero io. Mi ero schiacciato da solo. E quindi sono tornato indietro. Qui. Da te. Ad aiutarti…ad aiutarmi. Per me è tardi. Ma per te non lo è. Muoviti. Agisci. Smettila di creare. Comincia a costruire. Non aver paura di fallire, anzi…fallisci. Senti il dolore dello sbattere col culo per terra e vedrai che seduto non ci vorrai più stare. Io ho passato una vita a rimpiangere il tempo che passava senza che io facessi nulla. Sempre schiavo delle mie convinzioni. Sempre schiavo di archetipi precostruiti. La vita non si decide a tavolino. È per questo che quando nasciamo siamo stupidi bambini incapaci e piano piano arriviamo alla morte…incapaci nel corpo…ma saggi e maturi nella mente. Io invece morirò come uno stupido bambino incapace. Ma tu puoi ancora salvarti.

“Quel libro, quella bibbia per idioti, quelle pagine piene di fantasie e rimpianti…brucialo. Quella non è la tua vita. E purtroppo non è stata la mia. Brucialo. E scrivine un altro. Scrivilo col sangue, col sudore, con le gambe e le braccia. Con le tue labbra. Con il tuo corpo. Scrivilo con i tuoi respiri, con i tuoi polmoni. Con i tuoi occhi. Con la tua mente. Con le cicatrici, con i fallimenti, con le rotture, con i momenti sbagliati. Metti in risalto la tua vita con l’evidenziatore, non nasconderla col bianchetto come ho fatto io.”

Finisce qui. Mi guarda. E finisce di parlare. Ed io ho paura. Ed io sono felice. Ed io devo ancora capire cosa è successo. Devo ancora digerire tutto. Io sto ancora all’inizio. È come un rallentatore. Piano piano ci arrivo, lo giuro. Ma con calma.

Non posso rimanere qui ora. Prendo le pagine stampate della mia…sua autobiografia di fantasia…prendo un accendino. Esile esce dalle mie labbra un ‘grazie’ stentato. E lui mi guarda. Apro la porta e lì mi fermo. So cosa sto per domandare. Lo so e lo sa anche lui. Perché è l’unica cosa che veramente m’importa. E’ l’unica moneta di scambio. È la sola cosa che realmente può convincermi.

“Nella tua vita” dico “hai una moglie? Dei figli? Una famiglia? Capisco il vivere con la paura di sbagliare e la castrazione che comporta. Ma sei riuscito a trovare una donna, una famiglia insomma…almeno quella…l’hai costruita?”

E’ l’unica cosa che veramente m’importa. L’unica moneta di scambio.

Il vecchio mi guarda. E per la prima volta in tutto questo tempo…inizia a piangere. Io ho già capito la risposta. L’ho vista in prospettiva. D’altronde quello sono io.

E chiudo la porta della stanza con un rumore che copre il suo “no”…stentato.